Attraversiamo un’epoca in cui molti vanno alla ricerca del sensazionale e del prodigioso. Il fascino per la suggestione emotiva è assai diffuso e con grande fatica si trova gente disposta a cercare la profondità nel quotidiano senza ricorrere a scorciatoie o compromessi.
Se proliferano dipendenze come quella da gioco d’azzardo è perché il denaro assume la valenza simbolica del potere e cioè l’illusione di riuscire a controllare tutto, compresa l’imprevedibilità di un numero tirato a sorte. Anche la dipendenza da sostanze è nutrita da un delirio di onnipotenza che vorrebbe ora superare il limite, ora anestetizzare il vuoto lasciato da una ricerca idealizzata che mai potrà sfamare veramente.
Nelle Città proliferano folle smarrite su un piano di superficie che orienta la fame a seconda delle mode di turno e che sceglie di scartare fasce di popolazione perché ciò è funzionale al mercato dei consumi.
Tutto ciò è frutto di una spinta ideologica che non ammette valori di riferimento o confronto critico. Così si traduce il pensiero debole dei nostri giorni in cui tutto è colto con un relativismo legato ai propri punti di vista e la verità viene subordinata al proprio piacimento. Ma quando la neutralità viene assunta a valore allora si creano i presupposti per una società indifferente e spietata, che si interessa delle questioni e delle persone a seconda del proprio tornaconto.
Diversamente il Vangelo pone di fronte ad una scelta chiedendo di uscire dall’anonimato e, così, andare oltre i segni per accogliere quello che essi significano. Quando seguiamo la segnaletica stradale per arrivare a Palermo, una volta giunti in Città non troveremo più le indicazioni per Palermo e cercare ancora equivarrebbe a non riconoscere che stiamo già facendo l’esperienza di quel luogo.
Quando Gesù mostra dei segni è per accompagnare gli interlocutori all’incontro pieno e non rimanere più spettatori. Nella pagina di questa domenica (Gv 6, 24-35) troviamo le folle che hanno partecipato alla condivisione dei pani e ora continuano a cercare segni senza accogliere l’opera che il Maestro ha inteso significare. Il Suo intento non è sfamare dando il pane che passa, ma la relazione con Lui veicolata dal dono del pane. Quando ci fermiamo alle cose è come se pensassimo le relazioni in funzione del tornaconto materiale che ne possiamo avere, come nel caso di amicizie valutate in base ai favori e ai beni che se ne possono trarre o al rapporto con Dio ricercato al momento del bisogno.
Simile atteggiamento sarebbe quello degli invitati ad una festa che si concentrano sulle pietanze non dando più spazio alla relazione tra i commensali. Il cenare insieme, piuttosto, è in funzione dell’incontrarsi e del potersi raccontare reciprocamente.
Gesù si sottrae a questa mercificazione perché il primato è dato alla relazione e se riconosce la fame delle folle non è per dare delle cose ma per donarsi e così creare una relazione fondata sull’amore per l’altro: questo è il Dono che può sfamare il desiderio profondo che è nel cuore di ogni essere umano. Lui darà il Suo corpo quale pane per nutrire le genti, donerà la Sua vita per attraversare il dramma della morte e portare ciascuno oltre, nella casa del Padre Suo.
Gesù, dunque, rivela agli astanti che non è possibile una fede da spettatore e tantomeno da operatori affaccendati che cercano di procurarsi un posto. Quando gli chiedono quali opere essi devono compiere per rispondere al Padre, Lui li invita a credere ossia a poggiare la propria esistenza in Dio.
Non si tratta di fare qualcosa ma di accoglierLo e, così, diventare Sua opera, lasciarsi trasformare dal Suo dono. È l’esperienza che facciamo ogni volta che ci accostiamo all’Eucarestia, frutto dell’offerta e quindi del poggiare tutto in Lui per poi accogliere il dono del Cielo: il Pane eucaristico che nutrendo trasforma rendendoci Corpo del Signore.
La prima opera da fare, allora, è lasciarsi trasformare in opera di Dio e da ciò deriverà la testimonianza cristiana che non è tanto una performance ma una rivelazione della presenza del Cielo in noi.