Abbiamo bisogno di riappropriarci di termini come “gratuità” e “gratitudine”, e non tanto per una questione lessicale ma per restituire dignità all’umano, proprio perchè siamo stirpe capace di dono gratuito e di gioia per il fatto stesso di esistere. La gratuità presuppone la gratitudine!
L’essere nati è il primo dono che non è affatto scontato, esserci con la propria unicità è già un regalo e questa esperienza pone, fin da subito, in relazione con l’altro da cui si è accolta la vita. L’esperienza cristiana, poi, non si ferma a riconoscere la natura in quanto tale ma parla di creato in quanto vi riconosce l’impronta del Creatore. L’ambiente e chi lo abita, pertanto, sono frutto di un desiderio ed è questa volonta a permettere che le cose siano.
Comprendiamo allora come la gratitudine caratterizzi la vita cristiana. “Ciascuno cresce solo se sognato” ribadiva Danilo Dolci come ad intendere che il riconoscimento altrui costituisce una prerogativa vitale e influenza grandemente l’espressione e l’orientamento di una persona.
Scoprire che l’esistere non è mero accadimento ma desiderio di Dio apre l’individuo al senso profondo dell’esistenza, lo porta a riconoscere il quotidiano quale occasione per condividere senza timore di perdere qualcosa. Si esce, così, dalla logica calcolistica e dalla performance da realizzare e si sperimenta che l’essenziale cresce se donato e l’unico interesse che conti è amare!
Nel Vangelo si racconta di un uomo dotto che si alzò per mettere alla prova Gesù chiedendogli quel che era necessario fare per ottenere la vita eterna. È l’orizzonte dell’uomo abituato a fare per ottenere, la mentalità di chi si rapporta a Dio per piegarlo al proprio volere. Gesù lo rimanderà alla legge dell’amore e costui, ancora, perseverando nella medesima prospettiva gli chiede chi è il suo prossimo da amare.
Il Maestro a quel punto racconta una parabola, quella di un uomo che scendendo da Gerusalemme a Gerico si accorge di un moribondo. Altri, uomini religiosi, erano passati poco prima ed erano andati oltre, saturi di quella pienezza che rende l’essere umano indifferente, anaffettivo di fronte al patire altrui e, pertanto, incapace d’amore.
Non ama chi è troppo pieno di sé, chi vive per accumulare e crearsi una stabile dimora in questa terra. È l’uomo che perde il senso del cammino e diventa stanziale come se l’esistenza fosse questione di fortezza e non di precarietà. È il samaritano a fermarsi, un uomo scartato dalla società benpensante e additato quale peccatore con cui non è bene contaminarsi. Lui è capace di sostare, di muoversi a compassione e cioè di fare spazio dentro di sé. Non puoi avvicinarti all’altro, infatti, se non lo hai accolto dentro. Altrimenti sarebbe un mero formalismo, la buona azione natalizia che lascia il mondo imperturbato.
Il samaritano mette del suo, si prende cura, consuma i suoi averi e il suo tempo, ma in primo luogo si relaziona e dona il suo esserci. A fronte di tanti discorsi dei nostri giorni in cui si parla di muri e di responsabilità che non sono proprie, la logica samaritana ci pare l’unico dialogo da farsi. Quando si erge un muro non è ben chiaro se ad essere escluso è chi vi rimane fuori. Chi ha deciso di trincerarsi per non avere problemi, tutto ad un tratto scopre di avere sciupato l’occasione della sua vita: riconoscersi prossimo di un altro.