Il potere della visibilità è una questione che attraversa prepotentemente i nostri giorni. La sfera intima è così esposta allo sguardo pubblico da dare, a questo occhio vago, il potere di influenzare la percezione che si ha di sé, in base ai like o ai commenti ottenuti.
Senza visualizzazioni, infatti, parecchi adolescenti ma anche molti adulti sembrano andare in crisi identitaria e smarrirsi in un caos di emozioni angoscianti. L’esperienza di mancanza dell’altro si traduce, così, nel non conoscere chi si è e che cosa si desidera veramente.
È palese, certo, che tutti abbiamo avuto bisogno di essere visti da un altro per entrare nell’avventura della vita e tutti quanti abbiamo imparato a vedere le cose del mondo attraverso lo sguardo altrui, almeno fino a quando non si è stati capaci di senso critico e di visione propria. Il fenomeno contemporaneo, però, ci trova di fronte alla fragilità delle visioni personali e alla frequente ricerca di conferma altrui per legittimare il proprio status di vita. È così che la manipolazione e l’assoggettamento di interi gruppi è cosa assai diffusa ai nostri giorni e, fenomeno correlato, la mentalità superstiziosa penetra sempre più ambienti di elevata cultura. In entrambi i casi il riconoscimento è affidato alle mode e alle tendenze di mercato o alla magia per avere visibilità attraverso una “veste” socialmente ammirata.
Quando si scopre l’illusorietà di questa impostazione ecco che si cade nello scoramento depressivo o, ancora, in forme di difesa estreme fino a scomparire. Anche fenomeni ampiamente diffusi come l’anoressia o l’isolamento dietro uno schermo sono forme sintomatiche di questo ritiro. L’individuo cerca, così, di annullarsi per non essere più oggetto di attenzione e, di conseguenza, esporsi ad un nuovo tradimento e quindi un dolore ulteriore.
Ma c’è una via differente che fa del crollo di tale visione l’occasione per la rinascita, è quel che sperimenterà l’apostolo Pietro quando dopo il rinnegamento si scoprirà guardato da Gesù, il Maestro che pur sapendo aveva continuato a guardarlo e, dunque, ad amarlo.
Prima Pietro aveva mostrato tutta la sua sicurezza fondata sulla sua forza ma in realtà stava seguendo Gesù per un accumulo di grandezza, si sentiva un prode coraggioso. Quando sperimenterà tutta la sua precarietà è solo allora che scoprirà la gratuità dell’amore di Dio e, da lì, diventerà l’apostolo Pietro fino al dono totale della vita. Lo stesso accadrà a Paolo che dovrà passare per la cecità prima di abbandonare la fiera visione di un tempo.
La storia della Chiesa è segnata da questi accadimenti, si pensi a Francesco d’Assisi quando a contatto con il lebbroso scoprirà lo sguardo che va oltre le apparenze e, a quel punto, si riconsocerà fratello di tutti; o, ancora, ad Oscar Romero che dopo la morte del confratello gesuita Rutilio assassinato dai militari perchè difendeva i poveri, cambierà radicalmente visione annunciando con parole nuove il Vangelo nella diocesi di El Salvador.
Loro hanno colto la prospettiva del Vangelo e pagine come quella di questa domenica (Mt 5, 13-16) scardinano la visione “estetica” del vivere rivelando come rispondere alla chiamata ad essere “sale” e “luce” per questo mondo.
Il sale mischiandosi con le pietanze reca sapore, le rende buone e gustose. Permette di esaltare i gusti e di esprimere la bontà di cui il cibo è capace. Non vale per sé ma per l’altro e, soprattutto, non è motivo di vanto perchè si elogia il cibo e non il sale che in esso è contenuto. Una funzione fondamentale, dunque, ma non osservata. Serve, inoltre, a conservare e cioè a mantenere integro nel tempo preservando la bontà di ciò che ne è rivestito.
Anche la luce si dona recando beneficio a chi la riceve: non ammiriamo la luce in sé ma quel che da essa è mostrato. Questa consegna data a tutti i discepoli manifesta la chiamata cristiana, testimoniare Cristo e cioè la Luce del mondo, e indicarlo con la propria esistenza.
Nessuno vive per se stesso ma ci consumiamo divenendo dono per gli altri e questo è il senso dei giorni che ci sono dati. Alla sera di questa giornata un nostro fratello, Guido Ridolfo, ha esalato l’ultimo respiro. Lui era un buon gustaio, così come tanti nella nostra parrocchia, e si intendeva delle cose del Cielo. Sapeva bene che il sale non cerca di stare in primo piano, gioiva per la bellezza altrui e la custodiva con gratitudine.
Lo ricordiamo intento nel suo ministero parrocchiale trascorso, principalmente, nella pastorale della carità che non è mera assistenza ma molto di più: è accoglienza e ascolto, consolazione e dono per l’altro. Lui ha custodito il carico di tanti di cui si è preso cura e ha donato la Parola, quella che fa nuove tutte le cose proprio perchè ci viene donata dall’alto. Nel nascondimento quotidiano ha recato sapienza e sciupato l’amore, recando sollievo e ricchezza alla vita di tanti.
È stato luce per la Chiesa Sant’Agnese. Nutrendosi è divenuto partecipe di Cristo vera Luce e si è lasciato trasformare interiormente dallo sguardo paterno di Dio, capace di mutare ogni barriera e resistenza umana.
Guido è stato visitato da questo sguardo e si è lasciato plasmare dalla Sua misericordia rimanendo puntualmente meravigliato e commosso per questo grande amore.
Quando tre anni fa la malattia ha fatto irruzione nella sua vita, lui ha colto che stava iniziando un approfondimento del suo viaggio, è rimasto in ascolto lasciandosi interpellare e divertire dal quotidiano, apparentemente è rimasto il Guido di sempre ma interiormente è stato profondamente trasformato. “Sono pronto” ci ripeteva e, ora, rimane presente e non solo nella memoria di quanti lo abbiamo incontrato ma pure nel dirigerci verso la meta, è lì che ci ha preceduto, la meta che continua a recare Luce ai nostri giorni.