Viviamo un tempo che favorisce deliri d’onnipotenza, una diffusa l’illusione di potere avere un’esistenza illimitata e priva di confini come se la crescita procedesse per espansione egoica. Lo spavaldo e cioè chi con parole e agiti soverchia l’altro, viene quasi assunto a modello perché performante e capace di “successo”.

Questo frainteso dei nostri giorni sta indebolendo le relazioni sociali, il senso di gratuità, la trama di umanità e sta fomentando un individualismo che anima continue escalation di violenza privando della capacità di ascolto e di riconoscimento dell’altro.

Il capitolo 4 del Vangelo di Marco ci offre una prospettiva essenziale per leggere l’opportunità della vita e, così, assumersi la responsabilità del cammino.

La premessa è di riconoscere la condizione di piccolezza quale necessario punto di partenza, il confronto con il limite quale confronto per trovarsi e interagire la realtà che ci circonda.

Solo i piccoli sono capaci di fare spazio al dono di Dio perché liberi dalla brama di autosufficienza e rivolti al Cielo per comprendere la direzione da seguire ogni giorno.

Nella parabola del seminatore Gesù descrive diversi tipi di terreno di cui solo uno riesce ad essere pienamente accogliente. La frenesia e l’ansia della vita, piuttosto, impedisce di ricevere il dono perché troppo distratti da tutto il resto che, apparentemente, sembra più importante.

Anche l’agire del Signore assume questo criterio. La metafora del granello di senapa, il più piccolo tra tutti i semi, porta a riflettere sulla modestia del dono di Dio privo di ogni tipo di appariscenza. L’amore, dunque, si fa piccolo per favorire l’accoglienza e il Seminatore sparge il seme senza misura e cioè rimanendo fiducioso malgrado le possibili resistenze di chi si impermeabilizza ritenendo di potere bastare a se stesso.

Viene descritta la radice di ogni resistenza quando arriva la sera, dopo avere presentato le parabole, e Gesù invita i discepoli a passare all’altra riva.

Custodire il seme della Parola equivale a lasciarsi condurre perché la vita è un esodo che porta oltre la notte, oltre il buio che potrebbe ingannare mostrando che tutto è perituro compresa l’esistenza personale.

Rimanere nella comfort zone equivarrebbe a non abbandonare la folla, la scusa è che di sera non si naviga ma si riposa al sicuro, ma i discepoli sono chiamati a distaccarsi per superare ciò che li schiavizza e definirsi fronteggiando i timori della vita.

Chi rimane ripiegato su se stesso rintanandosi in rifugi apparentemente sicuri, piuttosto, non si evolve e mantiene uno status infantile fino alla morte.

Vivere della paura di perdere tutto è un dramma ed è, a nostro avviso, il motore che regge l’organizzazione di buona parte della società contemporanea che pianifica ogni sorta di appagamento egoico per esorcizzare il confronto con il limite e il riconoscimento della propria fragilità.

Imparare a resistere al pensiero unico che confonde l’emancipazione con la libertà di affermazione individuale a discapito dell’altro, è la sfida dei nostri giorni.

Ci troviamo di fronte ad un fenomeno culturale carico di aggressività volta alla pseudo autorealizzazione e che in modo ambivalente confonde i linguaggi utilizzando le parole in modo ideologico. E’ così che per difendere la causa della libera espressione non si tollera la diversità di pensiero e la critica – soprattutto se viene da un cristiano – è definita mero “bigottismo oscurantista”. Non c’è spazio per il dibattito perché l’ascolto è inficiato dal pregiudizio e, ad esempio, in nome del diritto alla vita si afferma la soppressione della vita altrui come nel caso dell’aborto. È la storia di sempre che si ripete sotto forme differenti ma che ha quale comune denominatore, la supremazia dell’io.

Su quella barca i discepoli impareranno un criterio diverso. Loro prendono Gesù come di peso (come se volessero tenerlo imprigionato nei loro schemi) e lo poggiano su di un cuscino – il termine greco è lo stesso indicato per il cuscino della bara – addentrandosi nella traversata notturna. Hanno accolto il Maestro ma ancora sono loro a dirigere, invece, Gesù si consegna come quel granello di senape e attende che il dono della Sua parola possa trovare dimora in loro.

La tempesta, metafora del dramma esistenziale di ciascuno, è motivo di ribellione e i discepoli lo rimproverano come se non li avesse a cuore. Lui è a poppa e l’imbarcazione prende acqua per cui sarebbe il primo, eventualmente, ad annegare.

Il Maestro entra sta entrando nei meandri della loro vita perché questo è l’unico modo per incontrarli in quella fragilità – la paura di morire – che impone una scelta di fiducia.

Prestare ascolto all’insidia del tentatore, come quel vento impetuoso nella notte, porta ad agitare gli animi e, quindi, a dargli spazio permettendogli di essere presente nella storia personale.

Gesù sgrida il vento e impone di tacere, sono gli stessi verbi usati quando affronta il male che tormenta gli uomini ed è questa la presa di posizione che libera dal nemico procurando la consolazione del cuore.

Gesù li invita a non lasciarsi dominare dalla paura, è quello che aveva mostrato loro rimanendo a “dormire” consegnato, fiducioso, al Padre. Lo stesso accadrà al momento della croce quando passerà oltre fidandosi dell’amore che lo lega al Padre.

A ciascuno, dunque, è dato di svegliarsi passando dalla paura alla fede, riscoprendo il dono della quotidianità quale missione di vita.

Tornando all’immagine del seme, prima della germinazione c’è la quiescenza che possiamo intendere, per l’essere umano, come la fase di consegna totale dove l’ambiente propizio alla nuova germogliazione è dato proprio dalla fede filiale e cioè dal sapersi amati e, dunque, attraversati dalla visione del Cielo che tiene cara la storia di ciascuno.

La vita cristiana, allora, non è qualificabile secondo la perfezione delle capacità individuali ma è scoperta approfondendo la preziosità del dono ricevuto: l’unico capace di solcare la storia generando bellezza e desiderio di bene.