La ricorrenza del Natale nel mondo viene frequentemente associata alla pace come se lo stupore della nascita di un bambino chiedesse a tutta l’umanità di fermarsi e sostare di fronte all’incommensurabile mistero della vita.
Trovarsi dinanzi all’incredibile esperienza del nascere è fonte di evocazione profonda, forse perché a ciascuno viene offerto uno spiraglio di luce sulla tenerezza dei ricordi infantili che tutti abbiamo cari aldilà delle idealizzazioni soggettive.
Questa risonanza emotiva, però, ha poco a che fare con il senso del Natale cristiano e, infatti, il mondo continua a celebrare la festa immerso nei consumi più sfrenati nel mentre che attorno impera la guerra.
Mi chiedo, dunque, come entrare oggi nella celebrazione dell’Evento della nascita del Signore cercando un linguaggio nuovo capace di scrutare le trame della pace e svelare le orditure della guerra che iniziano molto prima dello scoppio di un conflitto armato.
Sì, perché Natale è la Parola che si fa carne come recita il Vangelo e dunque si tratta di una Parola di vita e non di odio, di amicizia che sana ogni possibile rivalità.
Le manifestazioni di questi ultimi mesi in cui si continuano ad osteggiare bandiere delle parti in guerra, di fatto, adottano parole di morte incapaci di costruire pace uscendo dagli schieramenti. Essa, piuttosto, potrà scaturire non da una vittoria ma solo dalle mani alzate, dalla resa di tutti, per stringere un’inedita alleanza.
Di questa follia parla il Natale e senza l’umile resa, segnata dal perdono, non potrà esserci possibilità di accoglienza dell’altro che ci sta di fronte, ossia di colui che si dichiarava nemico. È il Cielo a non arrendersi di fronte ai popoli che confliggono perché in ogni guerra si è tutti perdenti e Dio non si rassegna fino a quando ogni essere umano non si riappropria del senso della giustizia e della pace.
Quando il Salmo 85 (11 – 12) recita “Misericordia e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno. La verità germoglierà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo”, esprime l’attesa che troverà compimento proprio nel Natale. Lì la misericordia precede la verità perché l’incarnarsi di Dio non si fonda sulla bravura umana ma sull’interesse gratuito verso l’umanità ferita.
Il Natale, dunque, mostra come il primato spetti al perdono e alla resa e non alla vendetta o alla vittoria. Se Dio avesse voluto rivelarsi come vincitore avrebbe scelto altre vie e invece sceglie l’umiltà della resa, la fattezza di un neonato consegnato in una mangiatoia.
Nel mentre che Cesare Augusto mostrava la sua grandezza attraverso il censimento, espressione del diretto controllo su tutto l’impero, un piccolo si confondeva tra gli abitanti presentandosi, già da allora, come cibo per nutrire quanti erano più affamati. Se l’imperatore confermava il suo interesse per il potere, il figlio di Dio rivelava il suo desiderio di sfamare quanti, altrimenti, rischiavano di perdere la loro vita.
L’ordinarietà dell’evento natalizio non ammetterebbe competizione alcuna ma chi nutre illusioni di onnipotenza si sente minacciato e reagisce con ostilità dinanzi al lieto annuncio della nascita. Il bene intimorisce chi si sente smascherato perché fonda il proprio tornaconto sul male, provoca chi non vuole ammettere la propria fragilità perché il bene ricorda il bisogno di cura che appartiene a ciascuno.
La storia di ieri è vicenda di sempre, i processi storici sono affidati alle prospettive dell’uomo e a ciascuno è dato di scegliere quale orizzonte coltivare: se schierarsi dalla parte dei potenti o, altrimenti, rischiare secondo la logica di Betlemme dove a ciascuno viene offerta ospitalità perché siamo tutti viandanti in questo mondo!
Maria assume questa responsabilità, lei piccola donna di Nazaret fa la sua parte nel favorire l’opera di Dio. La premessa è il riconoscersi in un progetto di vita da scoprire in intimo ascolto del Cielo. È l’avventura di ogni essere umano in quanto siamo tutti chiamati ad essere strumenti dell’amore, non detentori della salvezza ma custodi del dono di Dio che, ancora oggi, ha bisogno dell’assenso di ciascuno per tornare a diventare storia incarnata.
Da duemila anni è stata accorciata ogni distanza e la mangiatoia rimane il segno tangibile della gloria del Cielo che si è chinata sulla storia umana. Anche se le brutture umane non sono cambiate Lui si è consegnato nella mangiatoia e cioè in quel luogo che rappresentava la ferita primigenia dovuta alla pretesa di nutrirsi da soli senza più accogliere il dono di Dio. Ora è offerta l’occasione per accogliere il dono e, così, lasciarsi guarire.
Come contemplava Francesco d’Assisi, Dio continua a farsi pane e così nutrire l’umanità ferità e sanare ogni distanza. Si commuoveva il Serafico padre nell’ammirare tanta umiltà ed è questa bellezza che ancora oggi sprigiona il Natale ma ciò è dato solo a chi ha occhi per lasciarsi stupire dal dono ricevuto.