Ognuno porta con sé la responsabilità della libertà altrui. Ciascuno è custode dell’altro malgrado il preteso individualismo del nostro tempo frammenti i legami riducendo l’essere umano ad un autismo incapace di comunicare col mondo circostante.
L’unico orizzonte in cui si esprime la libertà è quello che favorisce l’espressione altrui e ciò è possibile attraverso le relazioni di cura piuttosto che i rapporti di padronanza dell’altro. Ed è anche per questo che oggi è necessario commemorare uomini come il giudice Paolo Borsellino e gli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Cosina, Claudio Traina, che il 19 luglio del 1992 hanno perso la vita per vile mano mafiosa.
L’arte della custodia, infatti, sembra costituire una sfida per il nostro tempo così gravemente malato di egocentrismo e conseguente pretesa di assoggettare l’altro. Eppure, loro, hanno avuto il coraggio di spendersi per il bene comune fino a donare la vita.
Custode è chi testimonia l’orizzonte di vita buona e, così, rivela la forza dell’amore e fa spazio alla crescita altrui. Custodire, pertanto, equivale a morire per il bene dell’altro e a gioire per i traguardi da lui raggiunti. La pagina del Vangelo di questa domenica (Mc 6, 30 – 34) vede Gesù nella veste del pastore che si prende cura dei suoi e ne riconosce il bisogno di sosta e nutrimento.
Non tutte le pause nutrono, anzi ci sono soste che interrompono il cammino sviando dal senso della vita. Molti tirano “i remi in barca” forse perché delusi da tristi esperienze di vita e pensano di potere ripiegare in uno stato di deresponsabilizzazione fino alla fase depressiva ma, certamente, questo tentativo si rivela illusorio.
Il travaglio che nasce dall’inquietudine per la causa del bene, piuttosto, ha bisogno di sostare per contemplare il mistero delle cose e riconoscere come tutto rimane illusorio fino a quando non si accetta di spendersi per il Bene e cioè per quel che genera la vita altrui.
Per custodire l’altro abbiamo bisogno di imparare a nutrici e il Vangelo per rivelare ciò ci consegna l’immagine del bel pastore: è il Signore che non cerca di possedere il gregge ma lo conduce verso il pascolo erboso, lo spinge fuori dall’ovile perché il rapporto con il Cielo non è fondato sul controllo ma sulla fiducia.
L’immagine biblica, ancora, ci mostra la forza dell’amore e ciò perché il pastore va innanzi alle pecore per affrontare i lupi e i pericoli incombenti. Lui, pertanto, è disposto a sacrificare la propria vita per il bene altrui, in quanto desidera proteggerne il viaggio e, dunque, il cammino che rende autentica l’esistenza.
Siamo il frutto della testimonianza altrui e quel che abbiamo imparato di buono è per merito di quanti ci hanno preceduto nella via del bene e, ora, attendono la nostra parte!
Il bel pastore è riconosciuto dalla voce, mentre la relazione muta rischia di diventare violenta perché abbiamo bisogno di dare senso alle cose e così spiegare gli accadimenti. A seconda della luce che cerchiamo leggeremo la storia in modo differente e, magari, col rischio di distorcerne il significato. La pedagogia utilizzata da Gesù rivelerà gesti e parole intimamente connessi, la sua stessa vita farà sintesi di quello che annuncia.
Chi si lascia illuminare avrà la capacità di riconoscere oltre le apparenze ed è quello che accade a Gesù che riconosce la fame della folla e ne prova compassione. Un giorno dirà ai suoi discepoli “date voi stessi da mangiare” non riferendosi al cibo che perisce ma alla testimonianza fino alla fine. È quello che gli apostoli vivranno dopo la Pasqua donandosi sino al martirio.
Se a Danisinni oggi troviamo una Comunità parrocchiale, dunque, è perché fin da allora qualcuno ha continuato a testimoniare la bellezza del Vangelo. La nostra patria, allora, sta nel cammino quotidiano e la crescita personale dipende dal nutrimento altrui: più si va avanti e maggiore sarà la necessità del dono.