La sofferenza fa parte del cammino dell’uomo così come la gioia, la passione e l’amore, la tristezza e la paura. Il dolore attraversa la sensibilità di ogni individuo ma solo chi ama conosce il dolore per l’altro, il patire per la sofferenza o la morte altrui.
A tale proposito possiamo affermare che la morte rivela l’amore, mette in luce l’importanza dell’altro e non solo per la mancanza che si vive ma, anche, per l’eredità che si custodisce dentro, perché l’amato rimane presente ovunque si vada. In quei casi la morte dona la capacità di vedere con occhi nuovi e la storia trascorsa si rilegge custodendo la memoria della bellezza mentre il presente viene abitato andando oltre le apparenze, cogliendo l’essenziale di ogni cosa.
Il nostro tempo ci ha abituati ad una continua rimozione della consapevolezza del morire così come del vivere. La morte è stata relegata agli schermi televisivi o comunque evitata attraverso una continua parvente immortalità: la moda dello sballo di un momento, la ricerca di felicità attraverso relazioni occasionali, la cosmetica che vorrebbe nascondere l’avanzare degli anni. Negare la morte, dunque, equivale a falsare la vita e a trasformarla in una continua finzione priva di profondità.
Abbiamo bisogno, piuttosto, di tornare a nutrire i legami attraversando la paura del rimetterci qualcosa, fino a spingerci alla gratuità del dono e del mantenere la relazione aldilà delle pretese autoreferenziali. L’individualismo, infatti, ha falsato i criteri del vivere e ha portato a continue valutazioni d’interesse in base al proprio tornaconto.
I giorni che stiamo vivendo, segnati dal tragico virus che miete vittime in ogni parte del mondo, appaiono come una frattura di quel viaggio così autoreferenziale che la società pareva volere percorrere. Non è possibile attraversare questo tempo rimanendo nell’isolamento di prima, infatti l’individualismo fa della fragilità un conflitto esistenziale autodistruttivo spegnendo ogni sorta di speranza. È di luce che abbiamo necessariamente bisogno e cioè di un orizzonte di senso che ci porti fuori da noi stessi per affrontare, con occhi rinnovati, l’avventura della vita.
La Parola che ci viene offerta in questa domenica fa dire a Giobbe “un soffio è la mia vita”, come a manifestare tutta la precarietà che sta nella storia di ogni essere umano. Questa può risultare un dramma oppure un estremo atto di fiducia, considerato che la meta è oltre e il cammino terreno è solo un frammento di ciò che ci attende. Ma, sottolinea Giobbe, il Cielo non abbandona mai quanti stanno in cammino e Dio rimane fedele accompagnando il suo popolo.
La pagina del Vangelo (Mc 1, 29-39) narra di questa prossimità data a ciascuno nell’ordinario. Gesù, uscito dalla sinagoga, si reca in casa di Simone e c’è uno stretto rapporto tra il luogo sacro e la casa familiare come ad indicare che l’uno dà verità all’altro. Il rimanere in preghiera nella sinagoga, senza affacciarsi alla quotidianità, equivarrebbe a trasformare la relazione con Dio in un culto e cioè in una religiosità priva di esperienza del Cielo. Al contempo, la casa fondata sulle proprie forze e privata della vita spirituale, tradurrebbe l’esistenza in un deserto sterile e la famiglia in un condominio anonimo.
Nella quotidianità il Maestro incontra la suocera di Pietro che ha la febbre e in quella stessa casa, così ordinaria, Gesù ascolterà i discepoli discutere su chi di loro è il più grande. È da quella intimità familiare che bisogna partire, da lì inizia il percorso di guarigione che Dio offre all’umanità. Sarebbe idealizzazione, altrimenti, il volere partire dalle battaglie ambientali o sociali senza avere prima risolto la semplicità delle relazioni più prossime.
La febbre, al pari del peccato, rende inabili e perciò incapaci di esprimere la propria missione di vita. Ogni male per essere sanato ha bisogno di essere presentato al Signore, diversamente il tentativo di cura, fondato sulla propria onnipotenza, procurerebbe un male maggiore. Ma alla base di ogni male sta la menzogna riferita al volto di Dio e Gesù è venuto per manifestare il vero volto del Padre, Lui si china per servire e sanare, e così sarà tutta la sua attività pubblica.
Interessante notare come la suocera di Simone dopo la guarigione comincerà a servirli e cioè scoprirà la sua missione: essere dono per quanti gli stanno attorno. Dapprima lei è servita dal Signore e successivamente, una volta guarita, comincerà a servire. Non si tratta di un contraccambio come a dare un prezzo all’amore di Dio, piuttosto è l’effetto dell’essere trasformata dalla sua presenza.
Non significa, neanche, diventare invulnerabili ma riconoscere che il Cielo si è chinato per abitare le fragilità umane e ricondurle all’autentica bellezza.
Infatti, prima o poi, la vita rivela che si è fragili e limitati, e quando si rimane centrati in se stessi ecco che si crolla non accettando che l’esistenza terrena rimane un “soffio”. Il servire, diversamente, esprime il sentimento dell’eternità perché serve chi ama e non tiene rivendicazione per sé.
L’abitare la casa, infine, non è un agire esclusivo ma dinanzi a quella casa vengono portati numerosi malati di cui Gesù si prenderà cura. È l’esperienza della famiglia di Dio che non si chiude in un intimismo di fratellanza che esclude chi non ne fa parte ma si apre alla condivisione fraterna che riconosce in ciascuno il volto del Padre.
Proprio alla sera, nel momento della debolezza, Dio ci accoglie per prendersi cura di noi e portarci oltre il buio della notte, di ogni notte, perché Lui è la Luce che non conosce tramonto.