Ogni essere umano cerca di essere riconosciuto e per questo amato. Senza amore si spegne la motivazione nelle cose da fare e l’interesse per la ricerca, per la crescita e l’esplorazione del nuovo. L’amore dona colore all’esistenza e procura il gusto dei giorni. Il desiderio e le visioni sono dettati dall’amore, altrimenti la solitudine diverrebbe vuoto esistenziale risolvendosi nella buia depressione.
L’amore, piuttosto, abita la mancanza, mantiene il legame attraverso la memoria dell’altro, alimenta il desiderio sostenendo l’attesa e la speranza. L’amore così inteso viene indicato come misericordia e cioè un movimento interiore analogo allo spazio che la donna fa dentro di sé quando concepisce un figlio. La misericordia accoglie e custodisce l’altro per, poi, restituirlo alla vita rispettandone la libertà.
La misericordia rende adulto chi la riceve, impedendo ogni sorta di ricatto emotivo proprio delle relazioni dipendenti e possessive. La misericordia, infatti, si esprime nella gratuità e nel perdono, non tiene conto del male ricevuto ma custodisce l’amore rimanendo orientata al bene altrui. Traduce, ancora, l’atteggiamento di fiducia nelle possibilità dell’amato e rimane fedele malgrado le tempeste o le possibili delusioni. La misericordia è scelta quotidiana perché non esiste un “sì” per sempre senza che, questa volontà, venga rinnovata ogni giorno.
Per questo motivo la domenica “in Albis” è stata legata alla festa della “Divina Misericordia” così come fu anche ispirato a suor Faustina Kowalska. L’evento della redenzione rappresentato dal battesimo, che trovava in questa domenica dopo Pasqua la deposizione della veste battesimale sulla tomba di un martire, è stato collegato alla misericordia di Dio che sempre rimane fedele nell’accogliere e sanare l’umanità ferita dal peccato.
Il Cielo custodisce il desiderio di comunione piena con l’umanità e questa proposta è aperta alla storia personale di ognuno. Quando i discepoli dopo la Pasqua si trovarono chiusi dentro casa ancora impauriti per timore dei Giudei, Gesù andò a visitarli e a loro donò la pace (Gv 20, 19 – 31). Non si tratta tanto del saluto ebraico ma dell’esperienza di comunione piena che è propria del dono misericordioso di Dio, quella pace che non viene meno malgrado il peccato umano perché Dio persevera nella pace nonostante la guerra dell’uomo!
Se nella liturgia manteniamo il dono della pace dopo la consacrazione è perché non si tratta di un mero “segno di pace” da tradurre in un inchino o uno sguardo perché oggi, afflitti dalla pandemia, non possiamo darci un bacio o una stretta di mano. Piuttosto è il dono di “Cristo nostra pace” che equivale a riconoscersi figli del Padre e dunque fratelli, cioè capaci di comunione profonda che è regalo del Cielo.
Tommaso sarà invitato a toccare le mani ed il fianco del Maestro e, così, entrare nella verità dell’agire di Dio che è lì a mantenere la relazione con loro benché siano fuggiti. I segni della crocifissione, dunque, diventano la testimonianza della misericordia che è un consumarsi per l’altro senza limite. È per questo che ai discepoli sarà dato il potere di sciogliere e liberare ogni persona dal peso del male e dunque del peccato, perché accogliere la misericordia di Dio equivale a lasciarsi rigenerare e abbandonare la mentalità legata alla esperienza della morte.
Ora la caduta porta la memoria della cura e dell’amore del Cielo. Come ebbe a dire, Dietrich Bonhoeffer, pastore protestante ucciso il 9 aprile 1945 dai nazisti nel lager di Flossenbürg:
“L’ora della tempesta e del naufragio, è l’ora della inaudita prossimità di Dio, non della sua lontananza. Là dove tutte le altre sicurezze si infrangono e crollano e tutti i puntelli che reggevano la nostra esistenza sono rovinati uno dopo l’altro, là dove abbiamo dovuto imparare a rinunciare, proprio là si realizza questa prossimità di Dio”. Con la gratitudine che ne scaturisce siamo riconsegnati alla vita.