SENTIRSI IN CAMMINO è il grande segreto della vita. Ci sono due orizzonti antagonisti che potrebbero regolare l’esistenza di una persona: vivere per farsi una posizione e quindi una prospettiva stanziale, oppure vivere per approfondire l’essenziale attraverso un cammino di graduale spoliazione. La prima postura è conservativa e organizzata attorno all’accumulo così come è l’orizzonte meritocratico e quello di colonizzazione, la seconda è relazionale e decentrata da sé perché apre al dono e al servizio per l’altro in quanto presuppone che la felicità è tale solo quando è condivisa.
Cammina chi è in attesa, chi custodisce il bene consumandolo, chi rischia del proprio per amore dell’altro, chi accoglie e condivide, chi si espropria degli averi per ricercare il senso delle cose che sta oltre l’immediato.
Guardando l’umanità del nostro tempo c’è da chiedersi SE SIAMO IN ATTESA e cioè se lo sguardo è rivolto verso il futuro o verso un contingente appagamento nel presente. C’è come un costante bisogno di sazietà che governa i nostri giorni e che impedisce, dunque, di sostenere la mancanza e la costruzione di un percorso che arrivi alla meta. Senza attesa si spegne i desiderio dei giorni, viene meno la gioia che motiva nella fatica e lungo il tragitto si perde la luce.
Da COME SI VIVE IL PROPRIO TEMPO è possibile intuire secondo quale prospettiva si organizza l’esistenza. Quando si rincorre continuamente il tempo, schiavi di un affanno senza fine, viene meno la consapevolezza delle scelte e subentra un moto incosciente che struttura le giornate privando di gusto il fare e gli incontri che si avvicendano. È un rischio che minaccia molti di noi perché siamo abituati ad un multitasking che ci impone ritmi di risposta sincrona.
In questo percorso esistenziale, pertanto, ha un ruolo privilegiato il tempo e cioè il come si consuma il proprio quotidiano. Vivere il tempo rimanendo in attesa della pienezza, nella prospettiva cristiana, significa entrare nell’oggi senza remore per vivere il bene e, dunque, spendersi nell’amore. Non l’eclatanza di un momento ma il poco necessario di ogni giorno, la gratuità che permette di camminare senza fuggire dalla realtà rivolti verso la meta.
Il Vangelo di questa domenica (Mt 25, 1-13) ci presenta la parabola delle dieci vergini le quali, apparentemente, si impegnano nel loro quotidiano in attesa dello sposo. È l’immagine d’Israele che attende l’incontro con il Signore e che, di fatto, non lo riconosce e Gesù rivela la necessità di un percorso relazionale che procuri l’olio necessario al cammino e quindi al riconoscimento nel momento dell’incontro.
Il fatto che cinque di quelle donne non se ne siano prese cura fa riflettere sul senso della fede che è prima di tutto relazione con il Cielo e non prassi formale di cose da fare o mostrare. Conoscere è fare esperienza, entrare intimamente in comunione e non è sufficiente stare nello stesso luogo.
Il figlio maggiore di un’altra parabola (Lc 15, 11-32), infatti, mostra come non conosca il cuore del Padre che rimane misericordioso verso il figlio disperso. Lui fa fatica ad entrare in casa per fare festa in quanto crede che il rapporto, in quella casa, debba essere regolato dal merito, per cui il fratello deve essere escluso mentre lui premiato. Non regge il confronto con la gratuità del perdono del Padre il quale continua ad amare malgrado il torto ricevuto.
Nel caso delle cinque vergini stolte, queste sono rimaste prive d’olio e dunque di luce per vedere ed incontrare lo sposo. Tutte si trovano a sperimentare la fragilità del sonno, metafora dell’ultimo cammino attraverso la morte, ma si trovano sprovviste al momento dell’incontro e non possono attingere dalle altre perché l’olio è frutto di un’esperienza personale coltivata nel quotidiano.
L’olio, ancora, esprime l’ospitalità e l’intimità, simbolo del Messia, per cui dice dell’attesa che rimane fiduciosa e disponibile all’incontro. È l’olio che sana le ferite e che unge chi appartiene al Signore, NON SI ACQUISTA OCCASIONALMENTE MA È FRUTTO DI UNA RELAZIONE QUOTIDIANA CHE RIVELA INTIMAMENTE IL VALORE DELL’ESISTENZA PERSONALE.
Non si procura l’olio chi vive di un appagamento immediato privo di attesa o chi rimane avaro e brama di riempire la propria casa. L’olio piuttosto, così come l’amore, va consumato per alimentarsi, va mantenuto nella disponibilità per il bene altrui ed è questa luce a dirigere verso il Signore.
Le vergini sagge sono prudenti e, cioè, leggono quello che succede attorno e fanno discernimento su ciò che conta davvero per mantenersi in viaggio senza disperdersi, non stanno ad attaccarsi catene che ne impedirebbero la libertà come nel caso di appagamenti immediati o mire di grandezza.
Questa parabola ha un’analogia con quella del Vangelo di Luca (12, 35-38) in cui non vengono menzionate le dieci vergini ma dei servi che con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese si trovano svegli al momento dell’arrivo del padrone. È l’atteggiamento esodale proprio di chi si sperimenta pellegrino e forestiero e, dunque, non mette radici perché è rivolto alla meta; è la postura del servo che si spende per l’altro ed è sorprendente constatare come proprio il padrone, al suo arrivo, si cinga le vesti per iniziare a servire.
Vivere il quotidiano rivolti alla meta futura, allora, significa rimanere capaci di visione che scorge l’oltre valutando le conseguenze delle proprie azioni e delle scelte di ogni giorno. Dalla meta che si persegue dipenderà la direzione e lo stile quotidiano, il mantenersi in cammino in attesa dell’incontro e, di conseguenza, il compromettersi sporcandosi le mani per la causa del Bene.