Nella fattoria comunitaria di Danisinni in questi giorni si spande il profumo del gelsomino e i bambini tornano a giocare sotto i raggi del sole. Il paesaggio pare preannunciare una nuova stagione anche se il timore per la diffusione dei contagi rimane ancora presente e minaccioso.
In tale scorcio in cui la natura accoglie il dono della pioggia e del sole per aprirsi alla primavera, e non per chiudersi in se stessa, troviamo lo spunto per leggere il Vangelo della trasfigurazione che ci viene proposto oggi, seconda domenica di quaresima.
I tre discepoli che saranno testimoni anche dell’agonia nel Getsemani sono chiamati in disparte da Gesù e condotti su un alto monte, luogo privilegiato della rivelazione di Dio. Accogliere la Parola equivale a lasciarsi condurre e condividere la vita intima del Maestro e, dunque, aprire gli occhi per vedere e riconoscere la Sua presenza.
Loro erano stati destabilizzati dall’annuncio della passione e ciò perché ancora hanno bisogno di perdere le proprie precomprensioni e, così, aprirsi all’ascolto che genera visione. Senza accoglienza del dono non è possibile la vita e, allo stesso modo, il buon seme ha bisogno di una terra fertile per potere germogliare. L’azione del Cielo però non passivizza, piuttosto Dio chiede la risposta personale di ciascuno per potere agire e i discepoli sono chiamati ad accogliere per, poi, consumarsi nell’amore.
L’esperienza della trasfigurazione sarà comprensibile solo dopo la pasqua, perché la trasfigurazione anticipa la bellezza di quella luce che viene dalla comunione piena e che sarà donata ad ogni discepolo.
La luce è fonte di vita, dona una risonanza emotiva che si apre all’amore, al dono, alla gratuità. I racconti biblici puntualmente contrappongono gli avvenimenti segnati dal buio della notte, intesi anche come buio interiore, da quelli luminosi e manifestati alla luce del sole. Ciò non significa che il cammino spirituale è fondato sul piano estetico o dell’apparenza, piuttosto dice che pure il segreto dell’uomo può essere invaso dalla luce se si rimane in relazione con Dio. L’esperienza della pasqua viene letta secondo tale prospettiva: sulla croce Gesù mantiene il legame fiducioso con il Padre e continua a proferire parole di perdono ed entrerà nella morte portando la luce anche nella tomba che, di fatto, rimarrà vuota.
Il monte, luogo della rivelazione di Dio, assume una connotazione inedita perché con Gesù muta il rapporto con il Cielo. Prima Mosè aveva accolto la Legge sul monte Sinai, poi Elia sul monte Carmelo aveva accolto il fuoco rivelatore della presenza di Dio smentendo, coì, i profeti di Baal. Adesso la rivelazione passa per la fattezza umana e il volto dell’uomo Gesù appare trasfigurato e le sue vesti candide come il sole. Non sono più le vesti indossate per coprirsi dalla vergogna dopo il peccato, ma esse fungono come una nube quando si cerca di guardare il sole e cioè permettono di vederlo.
Gli occhi dei discepoli sono capaci di andare oltre l’apparenza e cioè oltre quell’immagine di Dio frutto del peccato che impedisce di vedere la realtà nella sua verità e bellezza. Dunque non è la realtà a trasformarsi ma il proprio sguardo e viene portata a compimento la via che conduce al rapporto con il Cielo. Non è sufficiente la Legge perché altrimenti si potrebbe cadere nell’inganno dell’osservanza dei comandamenti per meritare il premio divino e non basta neppure la profezia perché rischierebbe di sottomettere Dio all’enfasi umana di chi si sente detentore esclusivo dell’esperienza spirituale. Nella trasfigurazione viene manifestata la luce che abita la limitatezza umana quando si rimane in ascolto della Parola: è la relazione con il Padre a generare discepoli e cioè figli capaci di vivere nella propria carne la Parola accolta.
L’illuminazione interiore è frutto dell’ascolto ed è necessario riconoscere, umilmente, il bisogno di un Altro che conduce la storia aldilà delle pretese vittorie dei potenti. Il monte da cui il tentatore mostra il potere dei regni, ora è soppiantato dal monte in cui la fattezza dell’uomo Gesù rivela come l’umanità è divenuta capace di custodire la grandezza di Dio e ciò attraverso il potere dell’amore.
Anche Abramo sul monte aveva sacrificato la pretesa di autoaffermazione. Lui che da sterile era diventato fecondo, deve restituire a Dio il dono ricevuto e cioè suo figlio. Isacco costituisce la garanzia per il futuro, la discendenza che gli avrebbe garantito un nome e la custodia negli anni della vecchiaia. Tutto questo va consegnato perché solo Dio è il garante della vita, questa è la postura del discepolo chiamato a condividere e a consumarsi per amore, senza mai appropriarsi del dono.
Fermare il cammino attraverso le tre tende, come suggerisce Pietro, equivarrebbe a cristallizzare la luce ma è necessaria l’incarnazione nella storia quotidiana per riconoscere come Dio si fa presente nell’umanità di ogni luogo e di ogni tempo. Il cammino è verso la gloria del Cielo e questa promessa è già custodita nel cuore dell’uomo che ascolta. Dunque il volto di Dio è rintracciabile in quanti accolgono la Parola e la mettono in pratica, in coloro che sanno rimanere nel cammino della vita certi della compagnia del Cielo.