Se c’è un male ci sarà un colpevole, se c’è una pandemia di chi è la colpa? È comprensibile che dinanzi ad un male ci si chieda una spiegazione causale e, nel mentre che resistiamo a casa, durante questi giorni riflettiamo su come eravamo entrati in un tunnel frenetico non curanti dei tanti segnali che il clima dava in tutto il pianeta e della sempre maggiore diffusione di forme tumorali dovute all’inquinamento e ai cattivi stili di vita.
Potremmo, però, cadere nell’equivoco di cercare un binomio causa-effetto per spiegare il grande dolore che stiamo affrontando e questo ingabbierebbe la nostra esistenza in una sorta di rivendicazione o rammarico privo di ricostruzione.
Dopo due settimane di restrizioni adottate per contenere il diffondersi dei contagi di coronavirus, la capacità di resilienza sta scivolando in stati depressivi di elevata ansia ed irritabilità, o di paura per le conseguenze della pandemia. Un senso di precarietà diffusa, a volte accentuato dalle direttive spot e poco chiare oltre che dalle fake news, sembra travolgere l’equilibrio delle famiglie nel nostro Paese. È importante, allora, focalizzare l’attenzione sul senso della propria esistenza e su ciò che davvero può dare nutrimento al cammino, seppure faticoso.
La Parola che ci viene consegnata in questa domenica apre ad un orizzonte prezioso. Dapprima è l’indicazione che Dio da Samuele, quando il profeta è inviato per ungere il nuovo re d’Israele, ad orientarci nel cammino: «Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore» (1Sam 16, 7). L’affermazione ci rivela come nel momento della prova, la vista abbia bisogno di andare oltre le apparenze ed entrare nell’interiorità, lì dove Dio vede e porta la sua luce.
La pagina del Vangelo (Gv 9, 1 – 41) approfondisce il significato di questo sguardo attraverso l’incontro che Gesù ha con un cieco nato. I discepoli chiedono chi avesse peccato, se lui o i genitori, dunque anche loro sono legati alla logica causale del tempo e Gesù rivela che è così affinchè si possa manifestare l’opera di Dio. Tale premessa indica che ogni esistenza non è casuale ma ha la capacità di rivelare la gloria di Dio ossia la Sua autentica bellezza.
Troviamo Gesù che impasta del fango con la saliva e lo spalma sugli occhi del cieco, dopo lo invita ad andare a lavarsi alla piscina di Siloe. Il Maestro entra in contatto con la ferità di quell’uomo ponendo un gesto che richiama l’atto creativo: Dio, infatti, crea attraverso la sua parola ed è proprio la saliva a permettere di parlare.
Rivolgendosi così al cieco, lo apre ad una relazione nuova con se stesso e con gli altri. Fino a quel momento la cecità connotava l’identità di quell’uomo tanto che ci sarà una grande resistenza ad ammettere la sua nuova identità, e sarà perfino processato e cacciato per questo.
Gesù, dunque, tocca la ferita e l’uomo, dopo essere andato ad attingere l’acqua per lavarsi alla piscina di Siloe, si troverà guarito. Quella cisterna rappresenta un luogo significativo per Israele, era stata realizzata dal re Ezechia per avere un punto di raccolta delle acque dentro le mura di cinta per resistere nei casi di assedio da parte dei nemici.
Ci sono tempi di grave prova in cui abbiamo bisogno di tornare alle sorgenti, forse per la prima volta, e così resistere alla devastazione che potrebbe invaderci. Sono le sorgenti della fede, i luoghi interiori dove affondare le radici per trovare nutrimento autentico e così sostenere il cammino.
L’incontro con il cieco si svolge durante la festa di Succot ossia delle Capanne che durava sette giorni e in cui Israele faceva memoria del soccorso di Dio durante il cammino nel deserto: il dono dell’acqua per dissetarsi e mantenere il cammino e della colonna di fuoco per orientarsi e trovare la direzione.
Durante quella festa a Gerusalemme, in ricordo, venivano accesi quattro enormi braceri e davanti all’altare veniva versata l’acqua attinta alla piscina di Siloe. In quei giorni gli Israeliti dormivano in una tenda realizzata fuori la propria abitazione, così come erano attendati durante l’esodo. Il ricordo dell’esperienza passata, dunque, diventerà attuale per quel cieco che incontrando Gesù recupererà la fonte e la luce della vita. In questo riconoscerà la sua missione di discepolo e potrà esprimere appieno la sua chiamata a seguire il Maestro, Lui che si rivelerà fonte d’acqua viva e luce del mondo.
L’opera di Dio, dunque, si realizza nell’uomo che nel momento della prova approfondisce la fede e scopre con maggiore tenacia la missione della sua vita.
Proprio ieri abbiamo celebrato la “Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime delle mafie”. Pensiamo se Falcone e Borsellino, apprendendo della morte dei loro colleghi e collaboratori, avessero rinunciato alla propria missione. Se già alla notizia del 6 gennaio 1980 quando il presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella fu ucciso mentra andava a Messa, si fossero tirati indietro; o, nel 1982, all’uccisione del comandante dei carabinieri Emanuele Basile a Monreale, del segretario del PCI siciliano Pio La Torre, o del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso insieme alla moglie e alla scorta mentre andavano a cena a Mondello, avessero pensato che era inutile andare avanti; o se, ancora, dopo gli omicidi di Rocco Chinnici, Beppe Montana, Ninni Cassarà e tanti altri, avessero gettato la spugna. Il male avrebbe prevalso, strappando loro la missione di vita che gli era stata consegnata- Loro, invece, hanno resistito e sono andati oltre e così, poi, don Pino Puglisi e tanti altri giusti della nostra terra di Sicilia.
È certo che loro sono morti non per volontà di Dio ma per vile mano mafiosa, ma è anche vero che loro sono morti facendo la volontà di Dio e cioè mantenendosi saldi nel Bene! È allora che l’esistenza personale di ciascuno si rivela sempre, anche nell’ora della prova, occasione per approfondire la missione che ci è affidata e opportunità per portarla avanti.