L’autoreferenzialità è propria di chi si crede giusto in questo mondo. Il procedere tipico di tanti burocrati o di quei funzionari di ogni settore che hanno fatto del quotidiano un rapporto di potere esercitandolo attraverso le carte e, comunque, senza aprirsi alla relazione con chi sta dentro un nome o un numero di protocollo, per comprenderne il travaglio e il desiderio di vita.
Si tratta dello sguardo offuscato di chi non accoglie l’interlocutore ma filtra ciò che ascolta e vede attraverso le lenti del proprio pregiudizio e che, prima di conoscere, è già pronto ad emanare sentenze!
Il rapporto autentico, così, viene soppiantato dal calcolo interessato e l’altro diventa motivo di interesse a seconda della funzione e non per il suo esserci. Molti rapporti e poche relazioni scandiscono il tempo contemporaneo e in tanti hanno perfino rinunciato alla prossimità riducendo ad un monitor o ad una fiction trasmessa l’unico interscambio umano.
Anche il rapporto con il Cielo è stato travisato in un mero confronto tra Dio e l’uomo, centrato su una logica retributiva in cui lo sguardo giudicante dall’alto va soddisfatto con la performance brillante e di successo. E, così, tanti sono bravi e buoni ma pochi sono figli, tanti sono capaci di opere grandiose ma pochi sono operatori della missione del Padre.
La ferità più grande del nostro tempo, a nostro avviso, sta nella perdita della identità filiale. L’individuo contemporaneo pare auto-generarsi ed il vuoto esistenziale cresce sempre più proprio perché non è dato appagare la sete d’amore che ciascuno porta dentro.
Tanti surrogati vorrebbero essere sostituitivi del Padre, in realtà vengono a strappare libertà all’umana specie procurando sempre più dipendenze e gabbie colme di ricatti e doverizzazioni.
La parabola di questa domenica (Mt 21, 28-32) apre uno squarcio di luce in questo clima appannato e rivela la possibilità data dal Cielo. Non un giudizio insindacabile ma un’attesa fiduciosa di un Padre che rimane in dialogo con i propri figli.
Sullo sfondo sta pure la parabola del padre misericordioso che rimane in relazione sia col figlio minore, che fugge via da casa appropriandosi dei doni del padre, e pure col figlio maggiore il quale si ribella dinanzi alla disarmante misericordia e gratuità di perdono che vede esercitato verso il fratello. Sembra non essere tollerabile per i “giusti” questo tipo di sguardo che il Cielo ha verso la terra e Gesù, ora, approfondisce il senso rivelando che perfino i pubblicani e le prostitute saranno toccati dal perdono finendo con l’essere i primi ad andare verso la meta.
La parabola odierna racconta di due figli inviati a lavoro nella vigna, uno dapprima si rifiuta ma successivamente va, il secondo invece dopo avere accettato l’invito del padre, di fatto, non va a lavorare. La questione non sta tanto in chi lavora o chi è è migliore rispetto all’altro ma nell’occasione di pentimento che è insita nella vita.
Significa che a ciascuno è dato di rientrare in se stesso rialzandosi dalla deriva in cui è caduto. Anche le storie più frammentate possono trovare una nuova narrazione e i tunnel più oscuri aprirsi alla luce che viene dall’alto. La fede cristiana è esperienza filiale e non ammette alcun fatalismo o rassegnazione. Mentre il “giusto” è già pieno di sé e quando sperimenta il fallimento rimane a dimenarsi nei suoi rancori, chi si scopre figlio apre lo sguardo al volto paterno di Dio e torna a nutrirsi di Lui.
Se non ci nutriamo d’Amore l’esistenza si spegne, se non attingiamo alla fonte rischiamo di rimanere sterili nelle nostre pretese autosufficienze. Il tempo che viviamo è un’occasione preziosa, e l’attesa rimane sempre fruttuosa quando è vissuta nella relazione con il Cielo.
I nostri giorni si sono ammalati di emotività di superficie, la cultura dell’immagine ci ha consegnati alla esteriorizzazione del momento, il “non c’ho voglia” della parabola, pare esprimere l’adagio esistenziale di molti i quali, piuttosto che stare nelle scelte e nella fatica di mantenere una direzione, preferiscono cambiare continuamente traiettoria illudendosi così di rendere felice la propria esistenza.
Ma fino a quando non faremo esperienza filiale ciascuno cercherà di auto generarsi finendo con l’alimentare un grande vuoto esistenziale. È tempo di scoprire che il principio sta fuori noi stessi ed è da un Altro che bisogna ripartire.