Il nostro quotidiano porta un interrogativo basilare a cui ciascuno dà la sua risposta e attorno al quale organizza tutta l’esistenza: cosa sarà dopo la morte?
Per alcuni il tempo che passa è uno scoprirsi sempre più invecchiati e segnati dalla precarietà della carne e, pertanto, sempre più incapaci di “vivere”. Questi sperimentano il consumarsi dei giorni come un perdere tutto e per garantirsi sopravvivenza cercano di affermare se stessi nei modi più disparati: il possesso, il potere, il successo, l’immagine impeccabile dimostrata.
Tutti questi artifizi, però, non sottraggono dalla paura della morte anzi, seppure costituiscano un modo per esorcizzarla, di fatto la rendono presente come fosse un macigno che incombe sui propri giorni.
Diversa postura è quella di chi ha la fede nella vita oltre la morte e cioè chi sa che la meta non è orizzontale ma verticale e, a motivo di ciò, sperimenta il cammino quotidiano come un consumarsi avviciandosi sempre più alla meta finale. Il “fine vita”, nella esperienza del credente, non è più una diagnosi medica ma il fine della vita!
Il cristiano procede verso l’incontro pieno con il Signore così come ricorda san Paolo: “Poiché ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia; ora conosco in parte; ma allora conoscerò pienamente, come anche sono stato perfettamente conosciuto” (1Cor 13, 12).
Qualora tutto si risolvesse nel cammino terreno l’essere umano perderebbe in partenza in quanto la morte è l’unica cosa di cui si è certi!
Eppure al cristianesimo viene criticata proprio l’attesa della resurrezione in quanto è considerata come una forma di alienazione che non permette di stare ancorati alla realtà. Viene contestato, cioè, che la speranza nel “mondo migliore” è un modo per non impegnarsi nel mondo presente.
Proprio tale critica rivela una stortura interpretativa perchè la fede cristiana apre ad un rapporto con la storia in cui ciascuno spende la sua vocazione impegnandosi nel quotidiano ma ciò costituisce la risposta a Dio e non il fine da cui ottenere il tornaconto definitivo!
La grammatica dell’amore che si nutre della relazione con il Cielo viene scritta in termini di gratutità, servizio disinteressato, fraternità scevra da competizione, e questo testo è davvero incomprensibile a chi è abitato dall’arrivismo, dall’avidità dei beni e dalla logica di convenienza senza scrupoli.
Idolatrare i beni di consumo per dare autorevolezza e senso alla vita umana è la malattia sociale che sta affliggendo i nostri giorni con conseguenze devastanti. Si pensi alle innumerevoli forme di dipendenza che si stanno sempre più diffondendo o ancora alla devianza giovanile basata su modelli parecchio aggressivi e seduttivi che vengono propinati per nuovi stili di vita. Viene trasmesso un “sapere” che consegna nelle mani dei potenti le giovani generazioni: è così che basta dare una pistola ad un adolescente per illuderlo che in base al suo coraggio potrà essere affiliato alla cosca del territorio ed essere annoverato tra i “temibili”; così come proporre un’idea di grandezza attraverso lo spaccio della droga.
La pagina del Vangelo di questa domenica (Lc 20, 27-38) rivela un modello ben differente quando Gesù si trova a confronto con i sadducei. Loro negano la resurrezione ed intendono la vita come un’esperienza concreta in cui il tornaconto è frutto di compromessi e regole da rispettare cambiando prospettiva a seconda del vento di turno. È così che li troviamo consenzienti di fronte all’occupazione romana che, di fatto, si contrapponeva alla fede d’Israele. Dunque una religiosità fatta di patti e di convenienze che veniva a garantire il loro potere.
Tale sistema di cose veniva destabilizzato dal fare di Gesù il quale si accostava a poveri e ultimi del tempo restituendo, così, dignità e fiducia nel Padre. La logica del più forte viene scalzata dall’annuncio evangelico ed è perciò che loro tramano di dare la morte a colui che stava portando oltre la morte riscattando l’esistenza di tutti.
Essi pongono una domanda pretestuosa per fare cadere Gesù, la questione su chi sarà in Cielo il marito della donna vedova che si è sposata a sette fratelli per avere garantita una discendenza e quindi la possibilità di sopravvivere. La loro domanda rivela un modo di pensare e giudicare la storia personale, un criterio utilitaristico in cui la donna veniva intesa come possesso e i rapporti umani calcolati in base alla convenienza.
Gesù risponderà ricordando che la vita dipende dalla meta e perciò dalla relazione con Dio, l’unico che dona di vivere stabilendo una relazione che è per sempre.
È la storia dell’amore che ci rende figli del Padre, un dono che non è dovuto alla perfezione umana ma al desiderio del Padre che vuole condividere pienamente la sua Casa con l’umanità intera. Anche questo per molti è un testo difficile da comprendere!