In questi giorni risuonano con forte eloquenza le parole del caro don Pino Puglisi il quale ci riporta a ripensare il viaggio della vita: “Venti, sessanta, cento anni… la vita. A che serve se sbagliamo direzione? Ciò che importa è incontrare Cristo, vivere come lui, annunciare il suo Amore che salva. Portare speranza e non dimenticare che tutti, ciascuno al proprio posto, anche pagando di persona, siamo i costruttori di un mondo nuovo”.
Sono parole che ci invitano ad assumere la responsabilità di custodire il cammino quotidiano il quale appare minacciato da un profondo tentativo di omologazione del pensiero e dei costumi, una spinta che orienta i bisogni, i consumi e le scelte esistenziali trasformando i cittadini e le comunità in aggregati di individui facilmente manipolabili.
Anche molte contestazioni, simili ai comportamenti reattivi tipici dell’età adolescenziale, sono il frutto di una orchestrazione che induce ribellione al prezzo dell’assoggettamento malgrado, apparentemente, venga promossa in nome della libertà!
Sebbene la ricerca di equilibrio tra unicità ed appartenenza sia un bisogno centrale per ogni essere umano, l’età post-moderna l’ha veicolato verso una elevata fragilità individuale.
Il soggetto, privato di punti di riferimento e di confini che potessero definirlo, è stato consegnato alla moda di turno intesa come luogo relazionale dettato dal mercato dei consumi sempre cangiante. Per non rimanere escluso, si pensi ad esempio alle diverse forme di bullismo tra i ragazzi, l’individuo cerca di adeguarsi almeno nei comportamenti e nelle cose da esibire. Questo adattamento è continuamente riproposto a seconda della pubblicità di turno e, dunque, l’umano viene condannato alla frenesia degli acquisti. Il risultato, comprendiamo bene, è la vulnerabilità volitiva insieme alla frammentazione e alla insoddisfazione del vivere.
Una interessante via di guarigione ci viene proposta dalla lettura del Vangelo (Lc 14, 25 – 33) di questa domenica che si presenta come un itinerario per uscire dalla massificazione e definirsi come individui in cammino insieme agli altri e cioè popolo e non più folla anonima. È necessario uscire dall’anonimato per divenire discepoli e, per questo motivo, Gesù pone dei parametri a quanti lo stanno seguendo.
La premessa è che bisogna venire fuori dalla illusione che riduce il cammino cristiano a una mera conoscenza teorica di Dio. Il cristianesimo non è una dottrina da imparare e neppure una esecuzione di precetti da esibire con i propri comportamenti, piuttosto è un poggiare la propria esistenza in Lui.
Per uscire dal piano imitativo e formale, in primo luogo, è necessario “preferire” il Signore ai legami naturali, come quelli familiari, perché altrimenti il cammino sarebbe impedito.
La fede è esperienza relazionale e si fonda sull’amore, ma è solo accogliendo l’amore di Dio che è possibile dare valore a tutte le altre relazioni, altrimenti ci si limiterebbe ai legami che hanno una profonda importanza ma che non possono essere assolutizzati prendendo il posto di Dio. Si cadrebbe, cioè, o nell’idealizzazione dell’altro o nella pretesa di assoggettarlo al proprio compiacimento.
Questo sbilanciamento non ammetterebbe la fragilità propria o altrui, non sarebbero accettati gli sbagli dovuti ai limiti personali e si continuerebbe a rivendicare la propria soddisfazione alimentando continui conflitti senza possibilità di guarigione. Quante ferite, anche remote, continuano ad incatenare le esistenze di molti, ma è dal riconoscersi figli del Padre che può scaturire la capacità di perdonare e amare non tenendo conto dell’offesa ricevuta.
Il dramma principale del nostro tempo è quello di avere rifiutato ogni tipo di paternità confondendola con il paternalismo del passato e ciò ha privato di confronto e di limite un’intera generazione che si trova a rivendicare, narcisisticamente, continue pretese o a consegnarsi al pensiero unico che spegne le coscienze individuali e, di fatto, assoggetta al padrone di turno più potente!
La richiesta del Vangelo non è una svalutazione dei legami ma un collocarli dando il giusto valore perché altrimenti si perde l’equilibrio. I legami sono profondamente necessari al vivere e al discernimento, ad esempio, si pensi che i gruppi a conduzione settaria cercano in primo luogo di recidere i legami familiari in modo da fare perdere ogni criterio di riferimento che possa fornire dati di realtà e, così, assoggettare il malcapitato di turno.
La seconda condizione riguarda il “portare” ciascuno la propria croce. Gesù chiede a quanti lo seguono di rimanere nella storia quotidiana con i suoi carichi e senza fughe aleatorie. Non ci sono deroghe per chi vuole rimanere sulla strada e, aggiunge, è necessario misurare le forze in quanto il cammino si confronta con i limiti personali e contestuali che vanno rispettati perché, altrimenti, il viaggio diventerebbe o una sorta di delirio d’onnipotenza oppure si cadrebbe nello sconforto rinunciando ad andare avanti.
Non si tratta di chiedere a se stessi uno sforzo sovrumano o, ancora, una smisurata capacità di sopportazione, ma di portare il gravame affidandosi a Lui e, dunque, seguendolo.
Il Maestro si è caricato delle esistenze personali arrivando al dono sino alla fine e, da allora, la croce non è più il luogo della disperazione solitaria ma lo spazio abitato dall’amore di Dio il quale, da ogni tipo di morte, fa uscire portando ciascuno alla vita nuova.
Ultima condizione è il non “avere” possessi e cioè nessun appoggio se non in Dio. Sembrerebbe utopistica questa richiesta ma, in realtà, è l’unica capace di restituire autentica felicità. Diversamente l’esistenza si organizzerebbe attorno a se stessi o alla garanzia dei possessi, cadendo in una continua ansia per quello che si dovrebbe avere o che si potrebbe perdere.
La fede traduce questa relazione che è desiderio di Dio, poggia in Lui chi desidera raggiungere la pienezza nella propria vita. E il desiderio supera il bisogno che schiaccia nell’appagamento immediato e sempre più bulimico, porta oltre facendo uscire dalla illusione della zona di comfort ricercata al posto del Cielo.
Rimanere autocentrati così come propina la spinta individualistica propria “dell’uomo che non deve chiedere mai”, costituisce una condanna ad una profonda solitudine priva di nutrimento relazionale e ad una continua ricerca di controllo che genera inquietudine e affanno della vita.
Il cammino dell’umanità è ben altra cosa ma, privo di premesse necessarie, il viaggio verso la meta rischia di trasformarsi in un baratro sempre più profondo. Ancora una citazione, di Martin Buber, torna alla nostra memoria: “Ecco ciò che conta in ultima analisi: lasciar entrare Dio. Ma lo si può lasciar entrare solo là dove ci si trova, e dove ci si trova realmente, dove si vive, e dove si vive una vita autentica. Se instauriamo un rapporto santo con il piccolo mondo che ci è affidato, se, nell’ambito della creazione con la quale viviamo, noi aiutiamo la santa essenza spirituale a giungere a compimento. Allora prepariamo a Dio una dimora nel nostro luogo, allora lasciamo entrare Dio”.