Privata del silenzio la parola si riduce a mero flatus vocis, suono senza senso, rumore mancante di verità. Abbiamo bisogno di parole vere per uscire dall’inquietudine esistenziale che, altrimenti, avvolgerebbe i nostri giorni.
Conosco giovani che non parlano, non hanno imparato perchè nessuno ha mai parlato loro, da bambini non hanno trovato adulti che sono rimasti in silenzio ad ascoltare quel che cercavano di comunicare e, oggi, sono poveri di parole e dunque si isolano, la loro comunicazione è ridotta all’essenziale e, proprio per questo, a volte arriva alla violenza. Troviamo i piccoli spesso ipnotizzati dinanzi ad uno schermo e sono così “tranquillizzati” dal mondo adulto e magari, poi, diagnosticati con un ritardo del linguaggio o un mancanto sviluppo motorio.
La parola per essere generata ha bisogno di trovare silenzio e ascolto, la parola senza accoglienza rimarrebbe un monologo privo di fecondità. È il silenzio a renderla possibile, a favorire l’ascolto e pertanto la relazione.
Diversamente si cade nel mutismo dei nostri giorni, ossia nella pretesa di essere sazi di se stessi o, al contrario, si scivola nella chiacchiera priva di autentica parola.
La parola, invece, trova dimora in una persona accogliente e cioè capace di custodirla anche se non tutto è immediatamente comprensibile. E l’ascolto abbisogna di libertà, della capacità di abbandonare ogni pregiudizio per stare in relazione con l’altro che si sta raccontando.
Un ascolto che cerca di ridurre l’altro alle proprie precomprensioni tenderà ad omologare e a non lasciarsi sorprendere, non ammetterà il nuovo e cercherà di spegnere la capacità generatrice propria della parola. Insomma, farà degli sconti alla verità ascoltata e, perciò, la trasformerà in parola di menzogna.
La qualità delle relazioni umane, dunque, passa per le parole e ad esse è consegnato il compito di tessere trame relazionali che siano fattivamente dono. Solo nella prospettiva del dono le parole hanno senso di essere espresse, infatti quando le parole non donano vita è meglio tacere!
Le parole usate per offendere e distruggere, assoggettare e colpevolizzare, sono parole private della loro capacità generatrice, sono parole svuotate di senso, parole senza pausa che denunciano la mancanza di vita interiore e, molto spesso, producono patologia.
Oggi la Comunità cattolica celebra la domenica della Parola e nel Vangelo (Mt 4, 12-23) troviamo Gesù, il Maestro, che si ritira in Galilea dopo l’arresto di Giovanni Battista. L’amico è reso “muto”, lui che gridava nel deserto apparentemente è messo a tacere, è un momento buio in cui è necessario portare la luce, quella che permette di attraversare le tenebre.
È allora che Gesù ha bisogno di ritirarsi per dare senso a quel che accade. Lo spazio interiore permette di accogliere la luce che illumina ogni cosa e senza di essa non sarebbe possibile discernere e vedere. Lui invita a conversione ossia ad orientarsi verso il regno di Dio che ormai è vicino. È un’immagine intensa, come quella di un bambino che si è smarrito e, in preda all’angoscia della solitudine, tutto ad un tratto ode la voce del papà o della mamma e immediatamente si desta per correre verso la direzione da cui giunge tale voce.
Il Cielo ci viene incontro ed è Gesù stesso che cammina verso l’umanità perduta, la conversione è data da questa risposta che riorienta la nostra vita. Quando abbiamo il coraggio di fermarci lontano dai frastuoni e rimaniamo in ascolto ecco che la Parola di Dio può indicare la via da seguire.
Il Messia si mette in cammino per attraversare i luoghi lontani, il suo sguardo diventa riconoscimento esistenziale, non vede solo dei pescatori ma in quell’arte che già appartiene alla loro vita Lui scorge altro e li chiama.
La Parola di Dio permette di uscire dal proprio quotidiano per entrarvi successivamente con un nuovo punto di vista: non più schiacciati da criteri di urgenza o di profitto ma consegnati alla storia con la fiducia di chi rimane in cammino non più solo e con una nuova meta.
Loro sono chiamati per rimanere con Lui, la parola rivolta ai discepoli è in primo luogo un invito alla comunione piena con il Maestro e solo dopo una missione per annunciare e guarire. Il fare è conseguenza di una relazione di intimità, esprime quel che si continua a ricevere da Gesù e non è il frutto della “propria” santità. Se così non fosse ogni discepolo del Signore potrebbe ergersi a guru della situazione ed essere idolatrato per i suoi innumerevoli carismi.
È pertanto che la liturgia di oggi ci ricorda la preziosità della duplice mensa, quella della Parola e quella Eucaristica, perchè insieme danno esperienza della Parola che è rivolta a tutti i popoli, all’umanità tutta senza esclusione alcuna.
Per ogni cristiano il cibarsi alla duplice mensa equivale a lasciarsi trasformare e a divenire Parola vivente e pane spezzato. La Chiesa, dunque, non è diretta dalla prospettiva del preservarsi ma del consumarsi e cioè dell’essere lievito, sale, fermento per questo mondo. Di questa Luce, che pur non corrompendosi si contamina, abbiamo bisogno.