Il nostro tempo, in modo inedito, comunica attraverso le apparenze e il vedere è diventato veicolo di conoscenza e di avidità, cosicché un continuo bombardamento mediatico vorrebbe guidare i gusti e le scelte e, dunque, il sapere delle cose. La comprensione si è spostata su un piano estetico che vorrebbe raccontare, così, la bellezza attraverso la perfezione delle forme.
La visione interiore e cioè il modo di orientare il proprio progetto e cammino esistenziale, allora, viene consegnata alle suggestioni di turno e portata su un piano di superficie che non tiene conto della bellezza che va oltre le apparenze e attraversa la concreta fatica del quotidiano. L’esterizzazione del vivere porta al fuggire dai legami, allo svalutare ciò che è fragile, a non sostenere la complessità propria delle relazioni umane dove ciascuno è diverso dall’altro e, per questo, dono da scoprire.
Se a partire da questa domenica nelle chiese troviamo i drappi che coprono i crocifissi e le immagini sacre è perché siamo stati resi capaci di una visione che ci apre alla pienezza e, allora, il velare ci ricorda che dobbiamo andare oltre e ci permette di riorientare la nostra attenzione sul centro che è Cristo crocifisso da cui proviene il dono pieno alla nostra vita, non intendendo nella croce la bruttura della morte ma l’amore che l’attraversa fino a donare la bellezza dell’eternità. Tutti i santi che rimangono velati, dunque, sembrano raccontarci che la loro bellezza viene da Lui e il tempo di attesa fino al gloria pasquale ci prepara alla meraviglia e commozione per così grande dono che ci è stato rivelato.
Nel Vangelo odierno (Gv 12, 20 – 33) troviamo un gruppo di greci che desiderano vedere il Signore, è la visione propria del compimento e cioè il vedere di chi non vuole fermarsi alle apparenze ma vuole scegliere, così come Giovanni che al mattino di pasqua dinanzi alla tomba vuota “vide e credette”. Vedere, in questo senso, equivale a credere e cioè a poggiare la propria esistenza non in se stessi ma in Lui: è il contemplare del discepolo che non rimane spettatore ma si apre al cammino. Vedere è rispondere ad una chiamata, accogliendo lo sguardo che Dio pone sulla propria esistenza.
Gesù dice che “È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato”, si riferisce al tempo in cui sarà rivelato ciò che sta oltre le apparenze e che manifesterà la Sua vera identità. A differenza della gloria umana, così come usualmente si intende, la gloria biblica esprime il valore profondo e il peso reale, cioè l’agire misericordioso di Dio. Il tempo sarà compiuto quando il Padre consegnerà il Figlio per amore dell’umanità e la morte rivelerà la misericordia che perdona ogni male e colma ogni distanza.
Il Maestro fa riferimento, ora, al seme che deve morire per portare frutto e nel nascondimento proprio della semina mostra il grande insegnamento che rivelerà con la sua elevazione da terra e cioè il donarsi per dare la vita vera all’umanità tutta. È l’uscire dalla solitudine egoistica propria dell’umanità segnata dal peccato e l’entrare nella prospettiva comunionale che apre alla vita altrui.
Il Figlio, morendo, svela la via d’accesso alla vita divina e cioè mostra come ciascuno può essere abitato dal Suo amore. Non muore per se stesso ma per dare vita agli altri. E la croce diventa il luogo in cui Lui definisce fino a che punto sia disposto ad entrare in relazione, fino ad abitare la tomba e cioè l’ultimo baluardo segnato dalla rottura del rapporto con il Padre.
Se anche la morte è abitata da Cristo, allora, l’umanità è definitivamente guarita dalla solitudine del peccato che l’allontanava dal Creatore. È un cambiamento di prospettiva che si impone: a ciascuno è dato di essere interiormente illuminato dall’amore di Dio e , quindi, di vedere l’esperienza personale e la storia dell’umanità secondo la Luce del Cielo.
Da questa conoscenza scaturisce il consumarsi per amore e il “perdere” la propria vita diventa l’unico modo per conservarla. Il “vedere”, allora, è possibile partendo dalla fiducia nell’amore del Padre, l’amore sino alla fine traduce il sapersi amati e, dunque, custoditi dal Padre che è nei cieli. È con questo atteggiamento che possiamo entrare nel tempo di passione e approfondire il legame col Signore attraverso la liturgia che nel triduo pasquale troverà compimento.