I processi di trasformazione negli ultimi anni hanno subito una profonda accelerazione e in questo scenario di cambiamenti, oggi, assistiamo ad una smodata ricerca di soluzioni per procurarsi una storia piana, senza contrarietà o ostacoli invalicabili. Certo intendiamo bene la reazione alla stasi pandemica ma sembra che, così facendo, si cerchi di anestetizzare ogni sorta di frustrazione attraverso l’evasione che, di fatto, contribuisce a procurare ulteriore angoscia e fughe sempre più dirompenti.
Se da un lato è comprensibile l’impegno per trovare soluzioni alle questioni della vita, dall’altro è da riconoscere che l’essere umano ha smarrito la capacità di ascoltare ed attraversare il dolore o di reggere la mancanza così come di rispettare il limite.
Questo atteggiamento determina continui agiti orientati dal criterio del piacere e dell’appagamento per non sentire il travaglio o il vuoto esistenziale. Viene assolutizzato il momento presente e, pertanto, non si tiene conto delle conseguenze di ogni scelta così come quando un giocatore d’azzardo patologico utilizza tutti i suoi averi per una scommessa piuttosto che per garantire i viveri alla propria famiglia.
Il risultato di questa postura esistenziale, per la vita psicologica e spirituale, è disastroso perché l’individuo perde la lettura della realtà e diventa impaziente, non riuscendo più a sostenere l’attesa per il domani e a custodire la memoria dell’esperienza passata in cui gradualmente ha superato gli ostacoli.
Se una parte della politica dei nostri giorni continua a riscuotere consensi è perché solletica la sfera emotiva che vuole risposte immediate senza tenere conto delle conseguenze delle scelte, ed è secondo questa logica che viene implementata la distribuzione di sussidi e di budget emergenziali privi di una fattiva programmazione volta al futuro.
L’umano, però, non può essere ridotto al “qui e ora” sebbene alcune correnti psicologiche, così come le pratiche meditative, permangano sbilanciate sul momento presente quale luogo di guarigione da ogni male.
La passione per la causa della giustizia, il senso della storia personale illuminato dalla visione della meta, il nutrire una memoria grata per la storia personale pur mantenendo il senso del proprio limite, sono soltanto alcuni aspetti del colore dell’esistenza personale che altrimenti, senza radici e senza meta, si priverebbe di gusto e di amore. Ama, infatti, chi è consapevole di non bastare a se stesso, chi rischia del proprio, chi esce dal calcolo autoreferenziale, chi sceglie di consumarsi anziché preservarsi, chi è grato perché coglie la vita come un dono.
La fede matura in questa prospettiva: è desiderio e non acquietamento, ricerca che coltiva una relazione in quanto riconosce nell’Altro il punto di partenza, è legame filiale che rimane saldo di fronte alle insidie, fiducia che non viene meno ma è fortificata dalle intemperie della vita.
Il Vangelo (Lc 18, 1-8) di questa domenica rivela come la fede va coltivata attraverso un rapporto incessante e cioè autentico e senza compromessi. Se Dio è riconosciuto quale respiro della propria esistenza, cioè coLui che permette di mantenersi in vita, allora non lo si ridurrà ad alcuni momenti della propria giornata o settimana come accade in un assai diffuso intimismo religioso. Diventerebbe una spiritualità privata che non ha nulla a che fare con la quotidianità dove a partire dalle interazioni si approfondisce il senso della fede.
L’immagine evangelica esprime la fede attraverso la richiesta di giustizia di fronte all’avversario. La vita è combattimento per tutti ma la differenza cristiana è data dalle armi utilizzate e dalla causa che si difende!
Non tutte le battaglie servono nel cammino verso il Cielo e, di conseguenza, non tutte le armi vanno bene. L’arte della fede abbisogna di cura e si apprende attraverso la relazione con il Signore, chi pensa di diventare maestro attraverso un manuale o imparando una serie di dottrine, sta solo nutrendo il culto di se stesso.
L’immagine evangelica è quella di una vedova e cioè di una persona che non ha più appoggi, quindi non si avvale di idoli, ed è totalmente affidata al difensore. È qui che la storia umana si mischia a quella divina, coloro che sono detti “piccoli” in Israele rivelano il manifestarsi di Dio.
Senza essenzialità e spoliazione dagli idoli di turno non può esserci rapporto di fede, altrimenti l’esistenza personale rimarrebbe imbrigliata in una serie di garanzie cercate in pratiche illusorie.
Dio, pertanto, ascolta il grido degli ultimi e cioè di coloro che hanno perso tutto, i “senza voce” del nostro mondo. Uscire dalla logica dell’indifferenza, dalla comfort zone personale, e prodigarsi per accogliere tale grido è la responsabilità cristiana. La fede non è scontata, dunque, e solo chi rimane in ascolto lasciandosi provocare dalle vicende della storia rimane in cammino approfondendo il senso della propria fede.
Privata da questa visione la missione cristiana si trasformerebbe in una frenesia delle opere, un fare per emergere e, così, dirsi migliori. In questo modo si perderebbe l’ascolto del Cielo e la vicinanza agli ultimi, cioè si smarrirebbe l’occasione dell’incontro che è data dalla prossimità con chi ancora oggi innalza il proprio grido.