Stare nel tempo dell’attesa è un’arte rara ai nostri giorni. Abituati a trattare l’esistenza in base ai risultati e alle soluzioni immediate sembra del tutto inutile attendere, stare in fila o nella sala d’aspetto. Addestrati a riempire ogni tempo, anche in ascensore intenti a smanettare con lo smartphone, sembra assurdo non occupare il tempo.
Il tempo vuoto è considerato tempo perso, eppure al contrario potremmo dire che il tempo troppo pieno rischia di essere un tempo sciupato.
Il nostro mondo sembra girare molto in fretta, ciascuno dice di non avere tempo e questa prospettiva lascia intendere che il tempo viene vissuto con il fare consumista di chi pretende di possedere, usare e gettare, ogni cosa.
Il tempo lo abiti, sei nel tempo, e, casomai, lo vivi rimanendo in ascolto o saturo di cose da fare. Quando la tecnica prende il sopravvento sull’umano, l’individuo è recepito come tassello della macchina dei consumi, la sua esistenza viene misurata in base alla performance richiesta, e se produce vale altrimenti è considerato inutile!
Non c’è spazio per chi sosta, per chi attende, per chi esplora. L’atteggiamento di ascolto, piuttosto, rende capaci di disconnettersi e cioè di spegnere il dispositivo perchè c’è altro da ascoltare, una persona o un paesaggio con i suoi sonori. Ascolta chi vede, chi va oltre le apparenze, chi attende e non è saturo di risposte, di soluzioni da propinare, chi sa di non conoscere il finale.
Gesù dirà ai suoi discepoli di stare nella vicenda della vita senza preoccupazione, non affannandosi per il domani, per il vestito o per il cibo. La premessa è di servire solo un Signore, altrimenti dividersi in più padroni equivarrebbe a divenirne schiavi e a vivere succubi della paura.
È la relazione con il Padre che si prende cura dei figli ad essere liberante. Quando l’essere umano si fabbrica un idolo nutre la pretesa di essere autoreferenziale e di ottenere potere dall’idolo che ha prodotto.
La storia ci dice l’opposto e, ai nostri giorni, l’idolatria della tecnoscienza caricata di aspettative tali da rendere l’umano sempre più onnipotente e senza confini, ha portato ad una sempre maggiore schiavitù e l’individuo non ha più possibilità di sosta perchè la società tecnocratica non glielo permette. È la tecnica ad autorizzare o meno la libertà dei singoli e, ci rendiamo conto, questa diventa sempre più una libertà vigilata, a seconda degli obiettivi di produzione raggiunti.
Non conta, in questi casi, la relazione umana, l’essere accolti o respinti dipende dal fatturato e chi era osannato fino a poco tempo prima viene poi cestinato all’arrivo di un partner più competitivo.
Attende chi rimane desto ed interessato nel tempo della mancanza, è proprio quello a preparare la sorpresa della meta. Si lascia stupire chi fa spazio ed accoglie la diversità, quello che non si sarebbe aspettato, chi ha fede nella promessa.
La promessa di cui trattava l’antico testamento diceva di un messia liberatore ma andava lasciato spazio all’attesa per riconoscerlo. Chi aveva fatto molti calcoli, difatti,non lo ha riconosciuto anzi ha avuto la pretesa di cambiarlo fino a sopprimerlo.
Il mistero del Natale è stato riconosciuto solo da chi aveva un’attesa densa di ascolto, non programmata ma capace di silenzio.
Oggi è venuta meno la capacità di accoglienza, forse troppe parole cercano di saturare l’animo umano, opinionisti che con i loro diktat vorrebbero spegnere la riflessione e silenziare l’interiorità in una sorda indifferenza.
Ancora oggi come duemila anni fa si erge un grido, chi sarà capace di ascoltarlo?