Viviamo per cambiare prospettiva, nel viaggio della vita ci trasformiamo e, se questo accade, contribuiamo al processo di crescita personale e comunitario. Cammina, però, chi impara ad accogliere il dono gratuito e il fare spazio dentro di sé è il primo passo per un reale cambiamento.
La storia personale abbisogna di una graduale spoliazione dalle resistenze, spesso l’esistenza è organizzata secondo il principio della conquista e dell’autoaffermazione ma tali misure difensive lasciano imbrigliati attorno a se stessi. In quei casi ci troviamo dinanzi a storie ferite che non permettono alcuna cura e che maturano diffidenza anche di fronte a chi tende la mano.
Questo atteggiamento non ammette guarigione e le difficoltà, proprie della vita, diventano terribili gabbie chiuse dal di dentro!
Il passaggio dal dubbio alla fede è quello che permette la cura e l’evoluzione della storia personale, è dalla fiducia che matura l’ascolto e, di conseguenza, il lasciarsi trasformare. Guarisce chi accoglie e cessa di trincerarsi in se stesso, cresce chi riconosce di avere bisogno dell’altro.
I discepoli di Gesù il giorno dell’Ascensione sono incontrati sul monte in Galilea, terra contaminata dal paganesimo e, dunque, da una religiosità incapace di portare oltre e di procurare vera luce. Al contempo è una terra libera dal formalismo farisaico che ha trasformato la Legge in un’osservanza che impedisce la relazione con il Cielo.
In quel contesto caotico ed informe il Risorto incontra i discepoli. Loro mancano di Giuda il quale ha tradito il Maestro, in realtà tutti lo hanno rinnegato ma loro sono rimasti nella relazione seppure ferita. Di fronte al fallimento, infatti, a ciascuno è dato di fuggire ad oltranza oppure sostare per ripartire anche dalle macerie. Lo Spirito soffierà su ossa inaridite, aveva profetizzato Ezechiele, perché il criterio d’azione di Dio non è la perfezione dell’uomo.
Prima di separarsi Gesù consegna il Suo potere: “andando fate discepole tutte le genti, battezzandole nel nome…”. È significativo che la trasmissione della fede sia indicata non come una strategia da mettere in atto e quindi un “andare” finalizzato ma, nel mentre del cammino ossia nel corso della vita dove, attraverso la propria testimonianza in cui si è chiamati a rivelare il volto del Maestro.
Quel “potere” di cui si parla, allora, è stato espresso dalla consegna che il Figlio ha fatto di sé con l’obiettivo di liberare l’umanità tutta. L’incarnazione, in sintesi, manifesta la spoliazione di Dio sino alla fine. Ai discepoli, dunque, è affidata la misericordia del Padre e questa è da esercitarsi a partire dal battesimo perché è il luogo in cui viene offerta una vita nuova, senza avere alcun merito ma per amore da parte del Cielo.
Il credente, pertanto, è chiamato a vivere la fraternità perché il battesimo genera alla figliolanza dove ciascuno si scopre figlio di Dio. La prossimità propria della missione ecclesiale non è frutto di strategie comunicative ma è espressione della propria identità. Solo chi si è lasciato rigenerare per amore è capace di avvicinarsi rivelando la relazione con il Padre.
L’ascesa al Cielo, dunque, esprime la fiducia di Dio verso l’umanità: è necessaria la distanza per vivere la relazione, altrimenti questa si ridurrebbe al piano del controllo che cerca la simbiosi.
Al contempo i discepoli sono invitati a non rimanere a guardare in alto, con un’attesa estetica o sensazionalistica, per avere risposte sul da farsi. Gesù dice di rimanere con loro e questo è possibile perché lo hanno accolto e interiormente lo custodiscono nutrendosi della Parola e della vita sacramentale.
L’autonomia personale, sappiamo bene, è frutto di una sana dipendenza che, al momento del distacco, non abbisogna di continui appoggi ma dell’ascolto di quanto è stato donato. Questo legame interiore viene custodito dalla fede.
Non un’esperienza individualistica ma sempre comunitaria perché è nella comunione che si fa discernimento sulla strada da percorrere. Il Maestro si è chinato per abbattere ogni inimicizia e, quando è stato umiliato e condannato, Lui ha mantenuto l’amicizia verso l’umanità tutta.
Il discepolo che rimane in cammino, allora, non si lascia imprigionare dall’astio o dallo spirito di vendetta ma il suo sguardo è come trasfigurato, vede secondo la luce del Cielo e, così, continua a vivere la sua missione.
Nel trentennale del martirio di don Pino Puglisi ricordiamo questo sguardo mite custodito dal parroco di Brancaccio. La sua non era una battaglia personale ma, ogni giorno mantenendo il basso profilo del quotidiano sacerdotale, elargiva la misericordia del Padre fatta di sacramenti, ascolto per discernere la verità da seguire e sorrisi, quelli che sono frutto della forza attinta dal Cielo.