Restare in cammino è l’atteggiamento necessario per rimanere umani: senza viaggio non c’è vita, senza distacco non c’è evoluzione, senza meta non c’è sapore dei giorni.
Costitutivamente siamo fatti per il viaggio e colui che si illude di fermare i propri giorni pensando di organizzarli secondo una preoccupazione stanziale, magari fatta di continui accumuli per garantire sicurezze di ogni genere, alla fine si rende conto di avere perso la partita più importante. La relazione con l’altro, infatti, abbisogna del registro della libertà e mai del possesso o della pretesa costrittiva. Molta aggressività dei nostri giorni è riconducibile a questo frainteso che confonde i rapporti umani oggettificandoli secondo la spinta dei consumi e, dunque, dell’ “usa e getta”!
L’altro, così, diventa misurabile e cioè valutabile con un voto secondo indici di apparenza o performance richieste. Anche la scuola fatica ad uscire da questo cliché rinunciando alla unicità di ogni persona e, dunque, impedendone la creatività. L’organizzazione aziendale, ancora, ha evidenziato tale riduzionismo quando ha fatto dell’ “ufficio del personale” un “ufficio per le risorse umane” e, dunque, dichiarando apertamente che l’utilità è il criterio che lega i suoi membri.
Eppure senza relazione non c’è cammino e nell’anonimato produttivo l’esistenza umana si trasforma in un turbinio vorticoso, una storia muta priva di narrazione.
A principio del nuovo anno liturgico ci viene proposto il tempo di Avvento e cioè i giorni dell’attesa come a ricordarci che è capace di attendere chi crede nel primato dato alla relazione e al legame con l’altro uscendo da una postura autoreferenziale. L’attesa rivela la capacità di amare e questa è possibile, come mostra la Parola, se si rimane vigilanti e non chini su se stessi ma volgendosi verso la meta, infatti senza sguardo rivolto ad essa si rimane privi della luce.
È interessante notare che la nostra società abbia dato il primo posto all’immagine facendone, però, una questione estetica priva di capacità simbolica: vedo solo quel che appare e non ciò che sta oltre. Questa prospettiva ha imprigionato molti nei ruoli e in una continua ricerca di perfezionismo fino alla ricostruzione plastica per “darsi un altro volto” e, di conseguenza, quel che appare si è svuotato di amore per sé e per l’altro.
L’attesa che apre al cammino, piuttosto, propone di rimanere nella storia per riconoscere i segni della presenza di Dio attraverso l’umanità e gli accadimenti che man mano attraversiamo. Dunque non si tratta dell’attesa della Natività, già compiuta una volta e per tutte, ma un approfondimento del dono già ricevuto il quale si rivela come luce lungo la strada.
L’esperienza sorgiva che inizia la storia di ogni cristiano è data dal dono del battesimo dove ciascuno scopre la paternità di Dio. La relazione che cura, dunque, è frutto del dono gratuito, del perdono che è tale non perché meritato ma per il desiderio di bene per l’altro. Da questa rigenerazione muove il passo il credente ed è la fede intesa come legame con il Cielo ad orientare il cammino su questa terra.
L’attesa vigilante di questo tempo, ancora, ci richiama alla responsabilità verso chi è escluso e che attende la custodia di tanti. È desto dal sonno chi esce dall’indifferenza e si fa prossimo, chi va oltre le apparenze per leggere la sacralità della vita altrui. Secondo questa visione cammina chi smette di costruire recinti difensivi e rimane accogliente lungo la strada, piuttosto rimane fermo chi investe le proprie energie nel costruire un confine rigido privo di prospettive e dettato dalla paura.
Con la caduta del muro di Berlino avevamo esultato perché pareva che la nostra Europa stesse a percepire la necessità del riconoscersi senza barriere esclusive, eppure è da riconoscere che nell’arco di trent’anni tanti altri muri sono nati e perfino il mare Mediteranneo, naturale crocevia di popoli, è diventato luogo in cui si innalzano muri fino a procurare migliaia di morti.
Cammina chi si apre con fiducia al viaggio, chi sa scomodarsi perdendo puntualmente qualcosa perché scopre di essere dono e, dunque, non può fare a meno di consumarsi per amore. L’Avvento, allora, ci ricorda che il gusto della meta è già esperienza quotidiana, non c’è un regno di Dio da attendere se non lo riconosciamo già presente attraverso la nostra opera. Torna in mente un proverbio che soleva ripetere il caro amico Leonida che oggi ci guarda dal Cielo: “Quello che vedi sei”.