Rimango ammirato nel vedere una coppia di sposi che, dopo tanti anni di storia condivisa insieme, rivelano una incredibile somiglianza e cioè un modo complementare di fronteggiare gli accadimenti, un pensiero e un sentire che dice di armonia e vicendevole sostegno.
Non mi riferisco ad una sorta di omologazione frutto della paura che renderebbe necessario l’annullarsi dell’uno rispetto all’altro, ma del dono di sé che genera vita nuova perché dà spazio all’altro e non lo soffoca sottomettendolo alle proprie aspettative.
Quando si sceglie di perdere qualcosa per amore dell’altro, infatti, assistiamo come ad una metamorfosi perché chi vive l’esistenza come dono è attraversato da una luce che contamina chi gli sta accanto. Lo stesso accade nell’esperienza della maternità quando la donna fa spazio dentro di sé ad una nuova creatura consapevole che questo comporterà un dovere condividere le proprie energie e il ritmo di vita. È per questo che maternità e la paternità, in primo luogo, sono uno spazio di pensiero e di cura rivolto all’altro ed è questa scelta a costituire il vero concepimento.
Tale trasformazione è possibile a chi esce da uno spirito di conservazione che vorrebbe organizzare l’esistenza attorno al timore di perdere qualcosa e, di conseguenza, alla ricerca di accumuli per trovare l’elisir di lunga vita. Il Vangelo, infatti, ricorda come il consumarsi per amore procura la ricchezza più grande e cioè la vita per sempre, quella che già in terra rivela la luce che supera finanche la morte.
La pagina della Trasfigurazione che meditiamo oggi, seconda domenica di quaresima, rimanda proprio a questa visione che abbisogna di ascolto per andare oltre le apparenze. Chi ascolta, infatti, abbandona la visione estetica che manterrebbe su un piano di superficie e, comunque, di continua dipendenza. La cultura dell’immagine, ad esempio, spinge verso un uso consumistico delle cose e del sapere proponendo una ricerca bulimica che, alla fine, procura solo buio e smarrimento.
Prima della salita sul monte, Gesù aveva rivelato la sua imminente passione fino alla morte in croce e questo per i discepoli era stato motivo di scandalo e Pietro aveva avuto l’ardire di rimproverarlo tanta era la disapprovazione. Anche i discepoli, dunque, nutrivano l’aspettativa messianica di un liberatore che avrebbe fatto giustizia attraverso la sua forza e la dimostrazione di grandezza. Ma il Maestro stava indicando loro una via nuova, l’unica capace di vera trasformazione, l’unica che trova nell’amore la forza che sana le ferite di questo mondo.
Ogni volta che si adottano altre vie si arriva ad un epilogo senza luce ed è il caso delle tregue che tradiscono il pericolo di nuove guerre o delle ideologie libertarie che, alla fine, diventano delle terribili forme di violenza per chi non si adegua ad esse.
Gesù li porta sul monte perché è necessario scoprire un nuovo punto di vista, quello che dall’ascolto permette di vedere l’amicizia che il Cielo desidera costruire in terra. L’amicizia tra gli uomini, dunque, abbisogna di questa fonte e accogliere l’amore del Padre rende capaci di testimoniare, perseverando nel bene, anche se questo ha il prezzo di una vita e spesso richiede pure il martirio.
Non è possibile piantare le tre tende come propone Pietro quasi a fissare quello stato di comunione così essenziale per la vita, la luce va accolta dentro e portata nel quotidiano lì dove è necessario illuminare le relazioni e dare senso ad ogni azione. Altrimenti l’agire umano si trasformerebbe in mera frenesia del vivere.
Il nostro pensiero oggi va a tutti i popoli vittime delle guerre, queste manifestano sempre l’ingiustizia tra gli uomini e, ancora, pensiamo ai tanti dissidenti che hanno scelto la via non violenta per ricordare che il buio si combatte con la Luce, l’unica arma capace di salvare il mondo.