La paternità appare inconciliabile con il mito del superuomo che per affermare se stesso si illudeva di non avere limite alcuno. L’autorità paterna, invece, pone un confine delimitando la strada da percorrere e favorendo, così, la crescita dell’individuo.
Secondo la logica dei consumi ciò è sconveniente perchè impedisce di rimanere avvitati attorno a se stessi alla ricerca di rifugi sicuri da cui dipendere. Il padre, invece, mostra il valore del sacrificarsi in vista di una meta e ciò esula dal principio di piacere che rende l’essere umano pedina da manovrare all’interno della scacchiera dei mercati.
La paternità, quella vera, insegna ad amare dunque e fare spazio all’altro differente da sé. Il nascituro a principio è un “estraneo” ma è l’accoglienza, fin dai primi istanti, a creare legame e donazione gratuita.
Il padre non sta in un rapporto fusionale con i figli, in questo è complementare rispetto alla funzione materna e la sostiene permettendo ai figli di entrare in relazione col mondo esterno e di costruire rapporto attraverso la parola ed i significati. Se la madre ha un contatto immediato ed epidermico il padre chiama per nome e costruisce una relazione stando di fronte. Si favorisce, in questo modo, il percepirsi in modo autonomo passando anche per la solitudine nei confronti dell’altro che è colto come diverso da sé e, alla stessa maniera, sostenendo i “no” ricevuti che rivelano un punto di vista differente dal proprio.
Sono processi che vacillano nella nostra società e che proprio in questi giorni di restrizione, volta al contenimento del contagio, stanno tornando ad essere esperienza molto concreta.
Oggi solennità di san Giuseppe, approfondiamo questa tematica guardando la figura del “Provvido custode” così come ce la consegna la tradizione della Chiesa. Tale appellativo per la nostra Comunità di Danisinni ha una risonanza speciale proprio perchè la precarietà di tutti i giorni è affidata al supporto della divina provvidenza. Non si tratta, certo, di un atteggiamento fideistico ma ciascuno di noi ha ben chiaro che è chiamato a fare la propria parte e a farsi strumento del bene ma, poi, di fronte a limiti oggettivamente invalicabili sappiamo di potere contare sul chinarsi misericordioso di Dio. È così che andiamo avanti tutti i giorni e in questo periodo in modo particolare.
La pagina del Vangelo (Mt 1, 16 – 24) presenta Giuseppe visitato nel sonno del conflitto interiore. Lui aveva appreso la notizia che Maria era incinta ed essendo “giusto”, ma non secondo la Legge d’Israele, meditava di ripudiarla in segreto per salvaguardarne la vita. È invitato a non temere e ad accogliere il figlio a cui lui avrebbe dato nome “Gesù”.
È stato detto più volte che il padre è il garante della legge ma in Giuseppe troviamo espressa la paternità a partire dalla disobbedienza della Legge. Questo passaggio è importante per non confondere il ruolo paterno con la pretesa di padroneggiare la vita altrui.
No, Giuseppe va olte la Legge perchè ha come criterio di discernimento il custodire il bene e rimane in ascolto per comprendere il da farsi. Il licenziare in segreto la sua sposa senza esporla alla pubblica accusa avrebbe avuto questo significato ma, poi, si fida del sogno e non sta a calcolare secondo un lucido raziocinio.
Giuseppe “prende con sé” Maria e Gesù assumendosi la responsabilità del ruolo paterno: accetta di dare il nome al figlio, è il primo a chiamarlo e a riconoscerlo, mentre Maria lo ha accolto dentro di sé e la Parola è già sua carne; sostiene la difficoltà nel trovare ospitalità al momento della nascita rimanendo a custodire la famiglia nella condizione di precarietà; li conduce in Egitto per proteggerli, a lui è chiesto di dare direzione guardando oltre.
Il quotidiano a Nazaret si reggerà sul suo lavoro, da non leggersi secondo le categorie maschiliste, tanto che Gesù sarà indicato come il figlio del falegname. Il ministero pubblico di Gesù sarà preparato all’interno di simile quotidiano di cui tacciono i Vangeli ma che serba una fase preziosa della vita del Messia.
Si pensi al contatto con l’esperienza della morte di Giuseppe e cioè il confronto con il limite più grande per ogni essere umano. Il ministero pubblico di Gesù porta come bagaglio questa esperienza pregressa che avrà certamente avuto un ruolo prezioso per la sua formazione, “contribuendo” a dare direzione alla sua missione che guardava oltre la morte!
I padri, infatti, ci aiutano a non rimanere rintanati nel nostro passato, piuttosto ci consegnano alla vita con uno sguardo rivolto in avanti e che non lascia spazio a idealizzazioni nostalgiche o a recriminazioni per quel che non è stato e poteva essere.
Giuseppe accettando di essere padre si è lasciato interpellare dalla chiamata ad essere custode, non ha avuto tutto chiaro ma si è fidato e, man mano, si è lasciato guidare dal figlio Gesù. Pensiamo all’angoscia di Maria e Giuseppe non trovando più il figlio nella carovana partita da Gerusalemme e alla risposta di Gesù, dopo il ritrovamento, quando afferma di doversi occupare delle cose del Padre suo.
Ecco, il padre è chiamato a custodire senza appropriazione alcuna, a permettere che il figlio tradisca le proprie aspettative e, così, mostrare il suo volto adulto. È padre chi genera nell’amore e, per questo, lascia che i figli scoprano e percorrano la loro strada. È padre chi rimane a guardare al Cielo e continua ad indicarne la direzione.