Primo giorno di primavera per la nostra terra di Sicilia, in modo speciale, segna la Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie.

Ricordare il loro nome rende fecondo il loro impegno perché abbiamo bisogno di una memoria che rimanga feconda di quanto ci è stato donato. Dimenticarne il nome equivarrebbe a renderci complici di quella efferata violenza che ha cercato in modo del tutto arbitrario di spazzarli via dall’esistenza.

Il nome dice dell’unicità di ciascuno e potere chiamare per nome è un atto di riconoscimento che dice dello spazio dato all’altro, del suo diritto ad esserci. Quando questo nome è di una persona che non è più in vita, allora, il farne memoria è un restituire espressione ai suoi atti, alla sua testimonianza, a ciò per cui si è speso e per cui è morto.

Tutti loro sono stati vittime innocenti delle mafie, il prezzo è stato molto alto e hanno pagato anche per noi il malessere della società in cui viviamo e, perciò, la loro testimonianza non può venire meno.

Loro sono testimoni di una resistenza che ha creduto nel senso del bene, della giustizia, dell’onestà, della solidarietà e dell’opposizione al male, che la vile mano mafiosa ha cercato di fermare ma senza, fattivamente, riuscirvi. Anche per questo, oggi, siamo chiamati a narrare la loro esistenza chiamandoli per nome.

Durante questo anniversario, lo scorso anno, Matilde Montinaro, sorella di Antonio – agente di polizia componente della scorta di Giovanni Falcone morto anche lui nella strage di Capaci, – ebbe a dire: “bisogna potere scegliere tra normalità e complicità perché è nella normalità che c’è dignità e non c’è eroismo, e con questo dico ciao Antonio”.

Abbiamo bisogno di difendere una normalità che fa del quotidiano il luogo del bene, del rifiuto di ogni sorta di compromesso con il sistema mafioso. La complicità nasce in modo subdolo attraverso i favoritismi che, man mano, diventano garanzie di quiete per trasformarsi in ricatti che imprigionano la libertà e la dignità umana.

Anche l’additare i testimoni come “eroi” può significare un prendere le distanze. Loro sono testimoni carichi di umanità e rivelano che ciascuno può fare altrettanto, nessuno escluso.

Oggi a Danisinni condividiamo un incontro organizzato dall’Ufficio di esecuzione penale esterna con un gruppo di persone, autori di reato, che stanno riparando al torto commesso con un servizio di pubblica utilità nella Fattoria comunitaria della nostra parrocchia.

Sappiamo che il carcere non è l’ultima risposta e, spesso, per alcuni si trasforma in una sorta di “scuola del crimine” per cui è necessario aprirsi ad un’esperienza rieducativa che rimandi al piano di realtà attraverso un patto di responsabilità che vede da un lato il detenuto sperimentarsi in pratiche di bene sociale e, dall’altro, l’istituzione carceraria fiduciosa in un riscatto possibile.

L’inizio della primavera sembra una metafora appropriata per indicare la possibile rinascita di coloro che per varie ragioni hanno intrapreso la deriva criminogena.

Nella nostra Comunità molti di loro rifioriscono rivelando il tratto di umanità e di bellezza che era stato schiacciato dai gravami della storia. Noi assistiamo a cambiamenti frutto dell’interazione positiva che hanno nel quotidiano e nel potersi esprimere in una pratica di cura ora degli animali, dell’orto o dei luoghi comuni dove di lì a poco andranno a giocare i bambini. Vedere nei loro occhi la soddisfazione e la gioia per il bene realizzato è un dono assai prezioso.

Una di queste storie di rigenerazione ha visto Paolo riscattarsi creando una Cooperativa che oggi abbraccia diversi giovani, alcuni dei quali, hanno avuto un trascorso penale. Questi sono i segni di speranza che ci conducono a spenderci con ulteriori energie per offrire ad un numero sempre maggiore opportunità di riappropriazione della loro vita, perché fino a quando si rimane nel crimine l’esistenza implode e lascia solo tracce di morte.

In questi giorni gli incresciosi fatti accaduti per le “vampe di San Giuseppe” ci confermano che l’intervento di prevenzione deve essere sistemico. Se un numero così consistente di ragazzi sono lasciati allo sbando fino a trovare nella goliardia di un incendio l’euforico modo per vivere il tempo, allora, è necessaria una accurata riflessione e revisione dell’organizzazione sociale.

Molti di questi ragazzi non hanno la sponda di genitori presenti nel ruolo educativo e, anzi, la loro modalità di interazione con i figli è parecchio disfunzionale adducendo all’essere “ ‘sperti”, così si dice, l’indice di crescita dei loro pargoli.

Genitori che non hanno la capacità di dire “no” comprendendo che porre dei confini lungo la strada è espressione di amorevole cura, perché senza limiti non è possibile orientare alla crescita e la conseguenza è il continuo avvitamento attorno a se stessi, questa, porterà ora alla distruzione vandalica del bene pubblico, ora alla dipendenza o alla spavalderia che farà rischiare la morte.

Molti di questi ragazzi, infatti, sono destinati a morire prematuramente per l’imprudenza nella guida di una moto, per l’effetto di una droga o per un crimine andato male. Fino a quando non si avrà chiaro lo scenario futuro che procurano le scelte di ogni giorno tutto questo sarà incomprensibile.

Chiaramente nel rischio di devianza adolescenziale stanno anche i ragazzi “saturi di benessere” e cioè quelli che hanno una vita materiale molto agiata ma sono privati di relazione affettiva da parte delle famiglie troppo impegnate a “fare soldi”. Sappiamo bene come l’organizzazione mentale e sociale di un giovane sia frutto delle interazioni precedenti e del calore di accudimento sperimentato.

Quando manca un’identità definita o la percezione dell’essere degni d’amore, allora, è probabile scadere in gesti rappresentativi di autoaffermazione o di comunicazione trasformata in urlo assordante.

Tutti questi sono sintomi di un malessere che le mafie mettono a sistema trovando forza nell’assenza di uno Stato che con fatica garantisce il diritto al lavoro, alla casa e, in taluni casi, alla sopravvivenza.

Siamo tutti responsabili, tutti chiamati a metterci in gioco per favorire una nuova primavera.