Oggi assistiamo ad una grande crisi di testimoni, tanti intellettuali facili alla critica su tutto e tutti ma pochi testimoni.
Sembra che abbiamo incasellato la vita secondo schemi culturali legati alla moda di turno lasciando poco spazio all’originalità individuale. Chi si esprime autenticamente, magari, viene inquadrato all’interno di un’etichetta diagnostica o, comunque, marginalizzato perché diverso. Questo anche perché l’omologazione offre un grande tornaconto in termini di consenso ed accettazione altrui, ma chiede una continua dimostrazione di fedeltà a quel modo di pensare e di vivere.
Il testimone, diversamente, non è perfetto ma è inquieto perché vive una continua ricerca esistenziale, non sa tutto e si sperimenta in cammino rimanendo in ascolto della realtà e dell’umanità circostante.
Il testimone, dunque, rimane attento ai segni dei tempi andando oltre le apparenze anche se questo comporta l’essere controcorrente o perseguitati.
Il testimone non vive per se stesso e con la sua esistenza rivela la causa per cui consuma i propri giorni, non parla di sé ma del dono ricevuto dalla vita.
Una società priva di testimoni è spenta, manca dell’entusiasmo proprio della scoperta quotidiana, imprigiona le persone dentro standard comuni e in ritmi giornalieri dove i tempi e le azioni sono dettati dall’esibire apparente felicità.
La cultura dell’apparenza, infatti, organizza la vita attorno ad una continua dimostrazione di grandezza, differentemente, la cultura evangelica è relazionale e orienta l’esistenza alla rivelazione di qualcosa che è più grande di se stessi. In fondo a ciascuno è dato di essere riflesso di ciò che porta nel cuore!
La festa di oggi, Epifania del Signore, racconta di come il Cielo si rivela ai piccoli, non a quanti pretendono di sapere ma a coloro che rimangono in ascolto. Lo Spirito di Dio, infatti, non si lascia possedere ma si dona a chi è libero dal proprio egoismo perché capace di accogliere la Parola di vita che fa nuove tutte le cose. Ciò presuppone la disponibilità a lasciarsi scompaginare senza rimanere ancorati a progetti precostituiti, infatti è epifanico chi si affida e rimane strumento di bene in questo mondo.
I magi, astronomi che scrutano le stelle, riconoscono un segno inedito nel cielo e lo seguono mettendosi in cammino perché la loro vita è ricerca della verità e della bellezza. Non hanno le risposte ma osservano ed ascoltano.
Potremmo equiparare il loro metodo non a quello scientista di chi vuole conoscere per controllare ogni cosa, così fanno gli scienziati capaci di costruire armi nucleari, piuttosto la loro sapienza è rivolta ad approfondire il mistero della vita che è sempre oltre le apparenze e, dunque, scrutano per lasciarsi condurre. Tale libertà li porta dinanzi ad Erode chiedendo del vero re e cioè non si lasciano dirigere dai potenti di turno e tantomeno dalla paura ma dal coraggio di chi è affascinato dalla bellezza.
Interessante notare come Erode abbia paura di quella domanda e cerchi di tramare interpretando la ricerca altrui come una minaccia al proprio potere. Sebbene sia circondato dai capi dei sacerdoti e dagli scribi i quali conoscono le Scritture tutti loro non hanno la capacità di lasciarsi condurre. Usano il Cielo per giustificare se stessi e, magari, rimanere comodi ma non sono capaci di ascoltare in profondità e la loro conoscenza è ridotta a quiete esistenziale.
La Scrittura spiega il senso di quel segno per cui i magi abbandonano la stella e in ascolto della Parola si recano a Betlemme. Custodiscono l’umiltà di chi rimane in ascolto senza lasciarsi suggestionare dai segni con un atteggiamento sensazionalistico o magico, piuttosto sono consapevoli che i segni sono solo strumentali. Questa prospettiva permette loro di riconoscere la presenza del vero re in quel bambino che dimora in una casa, non è più la mangiatoia, insieme alla madre. Una scena apparentemente ordinaria, di un’essenzialità grande ma che rivela la profondità del vivere ed il mistero della nascita.
Simile riconoscimento li porta ad offrire tutto e in quei doni – incenso oro e mirra – è racchiuso quello che potrebbe, altrimenti, reggere la loro esistenza. L’oro quale simbolo delle ricchezze e dunque della brama di potere per esserci, l’incenso quale manifestazione della gloria e del riconoscimento che dirige il cammino, e la mirra quale profumo per contrastare la fragilità della morte coprendo la verità di quel che si è. Tutto viene offerto perché si è trovata la fonte su cui poggiare la propria storia.
Ora il loro ascolto è profondo quasi a definire un itinerario spirituale che va dai segni allo scrutare la Parola arrivando all’interiorità che custodisce il dialogo con Dio. Tornano per una strada nuova dunque, perché nuovo è lo sguardo e la direzione di chi ha incontrato il Signore. Sebbene tornino a casa e questa rimane la stessa di prima è mutata la luce interiore che permette di vedere oltre le apparenze. Il nostro mondo ha bisogno di uno sguardo rinnovato con cui rivolgerci a tutte le cose, solo quello sguardo sarà capace di perdono e di gratuità, di amore aldilà delle fatiche affrontate.