Abbiamo bisogno di un pensiero divergente che vede il tutto nel frammento e che supera la logica del calcolo e della convenienza, per ritrovare il senso della vita e recuperare umanità.
Il processo che regge la Comunità di Danisinni esprime un pensiero divergente che va oltre le apparenze ed ascolta le potenzialità e i bisogni del territorio aldilà delle logiche meritocratiche o delle strategie finanziarie.
Abitare il paradosso e rimanere anche quando tutto sembra perduto è la grande sfida dei nostri giorni. È la visione che ha permesso a Francesco d’Assisi di abbracciare il lebbroso e, così, trovare la strada per sanare ogni ferita e scoprire il gusto dell’amore.
Ripartire dall’ospitalità quando i criteri economici spingerebbero ad accumulare piuttosto che ad accogliere, è una delle tante provocazioni. Per ospitare, infatti, è necessario privarsi di qualcosa facendo spazio all’ospite inatteso. Fino a quando si rimane troppo pieni, perché presi dal rispondere ai propri bisogni, non ci sarà posto per l’altro e si resterà affaccendati nelle tante occupazioni del quotidiano.
Eppure il fare, privo di relazione, manca di significato e svuota interiormente fino a lasciare un continuo senso di inappagamento. Le opere volte a colmare la propria brama di protagonismo finiscono con lo schiavizzare l’essere umano imprigionandolo in una serie di ansie per difendere ciò che dovrebbe procurare identità.
Abitare il paradosso, dunque, significa disporsi in ascolto tornando a cercare risposte nuove sostenendo il tempo dell’attesa. Ciò comporta un mettere in discussione il fine del proprio impegno e, così, uscire dalla logica della conquista dettata dalle opere da realizzare. Perché l’agire privo della relazione non custodisce il primato dell’umano e diventa uno sterile attivismo.
Il Vangelo (Lc 21, 5 – 19) di questa domenica centra il tema del paradosso cristiano nel legame filiale con il Padre, dunque, in una relazione e non in un luogo. Gesù si ribella a quanti stanno a meravigliarsi del tempio come se fosse la garanzia della vicinanza di Dio.
L’umanità ha sempre cercato di avvicinarsi alla divinità attraverso luoghi fatti da mani d’umo e che, nella loro magnificenza, vorrebbero tradurre l’onnipotenza del Cielo. Simile prospettiva è messa in discussione perché equivarrebbe a piegare Dio ai criteri che continuano a produrre scarto umano in quanto, il valore, viene definito in base alla perfezione dell’aspetto, le performance raggiunte o il riconoscimento mediatico.
Incomprensibile, secondo questo ragionamento, la prossimità di Dio verso gli ultimi, la predilezione per gli umili e, soprattutto, l’assunzione della carne umana per rivelarsi. Non un tempio che mostri grandezza ma un corpo che nella sua limitatezza mostra il significato dell’amore.
Gesù dichiarerà la distruzione del tempio e dirà come quelle pietre così preziose andranno disperse, mentre la pietra scartata diventerà testata d’angolo e cioè la base su cui poggiare la propria esistenza.
Cambia la visione perché non si ragiona più in termini di sacralità e, quindi, di separazione, ma di santità dove Dio abita nella creatura rendendola capace di testimonianza divina.
Il paradosso cristiano costituisce uno scandalo per questo mondo, ciò che era da evitare invece è da incontrare e riconoscere nel profondo. Il Maestro si identifica con chi è nudo, indifeso e affamato e chiede ai discepoli di andare oltre l’immaginario collettivo per denunciare l’ingiustizia di ogni tempo. Si pensi, oggi, ai profughi vittime di tortura che vengono respinti e, magari, restituiti agli stessi carnefici, o al divario sempre crescente che sta amplificando a dismisura la fascia di popolazione che vive grave precarietà e ai pochi oligarchi che possiedono patrimoni smisurati e che consentono loro di orientare le politiche dei Paesi.
La misericordia chiede di compromettersi per e con l’altro, non è possibile rimanere spettatori ma la compassione provoca un coinvolgimento totale fino a consumarsi per amore. Il tempio sarà distrutto così come Gesù sarà crocifisso ma, il tempio di carne, attraverserà la morte e la sconfiggerà aprendosi all’eternità.
La storia umana viene interrotta e anche i grandi imperi economici verranno giù come è stato per l’impero romano ma, quel che resta, la storia relazionale con il Cielo è per sempre.
La prova e le esperienze di estrema fragilità rivelano come si vive da figli del Padre, con la fiducia di chi non si lascia sopraffare dalle paure.
Bisogna decidere un’inversione di rotta: se privilegiare lo spazio, come nel caso del tempio, diventava la garanzia per controllare la realtà e la propria realizzazione attraverso i possessi, ora è necessario scoprire il tempo quale occasione per spendersi per amore e nutrire il legame con il Padre.
Abitare questo mondo, dunque, custodendo la consapevolezza del Cielo e generando processi di comunione, segni di speranza, cura dei piccoli e ricerca dei frammenti e cioè di quanti sono smarriti e senza tempo.