Occorre un’inversione di prospettiva per cogliere la portata dell’annuncio regale che viene dalla Croce. La solennità di Cristo Re, infatti, viene descritta dalle parole della pagina evangelica della crocifissione. Non si racconta la vittoria valorosa di un re che sconfigge l’avversario con la forza delle sue armi ma la fine di un uomo segnato dalla tortura che giace dilaniato su una croce insieme ad un paio di malfattori.
Un Dio scomodo viene presentato in questa ricorrenza che porta un titolo dalle sembianze fastose e appariscenti. In realtà il Salvatore fin dalla nascita ha mostrato una fattezza umile descritta dalla mangiatoia e poi alla persecuzione di un re che entra in competizione malgrado la vulnerabilità di quello che considera suo avversario. E, ancora, la scelta preferenziale degli ultimi, il prendersi cura di loro condividendo la gioia e la fatica della mensa, ha rivelato la visione di Dio che desidera accogliere tutti attraverso la sua vicinanza fino a farsi pane spezzato per ciascuno.
È incomprensibile questa logica per quanti denunciano lo scandalo di un Salvatore che non salva se stesso ma continua a rimanere lì per gli altri. L’epilogo della croce è ulteriormente destabilizzante perché già, il motivo della condanna, lo proclama re dei giudei e il suo mantenersi consegnato al Padre rivela una relazione che va oltre ogni possibile sofferenza.
Solitamente, infatti, il dolore fa ripiegare su se stessi e casomai apre ad una preghiera autoreferenziale perché ci si rapporta con Dio per chiedere una grazia personale. Qua, invece, Gesù rimane aperto al Padre nel volersi prendere cura di tutti e la richiesta, “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”, spezza ogni umana considerazione.
L’umanità fatica a considerare il perdono quale risposta ai torti subiti, ordinariamente si è capaci di tollerare ma la gratuità del perdono, che vuole riconciliare e condividere i propri beni con l’altro da cui è ricevuta un’offesa, è un viaggio davvero difficile.
Eppure dalla Croce viene trasmessa la lezione più grande. Non parole teoriche, non lezioni cattedratiche, non una morale fatta di precetti per diventare buoni, ma una testimonianza che chiede di entrare in relazione con Lui, il crocifisso che rifiuta di salvare se stesso e si dona all’umanità tutta.
Qualcuno potrebbe tornare a chiedersi il perché di questo gesto, a cosa potrebbe servire un dono che passa per la croce o, ancora, perché l’amore debba attraversare così tanta sofferenza, ed è opportuno, dunque, fare alcune considerazioni.
Il cristianesimo porta a compimento una promessa antica fatta ad Israele, quella di ottenere un re ma secondo il cuore di Dio. Il popolo ebreo, infatti, aveva insistito per avere un re al pari degli altri popoli ma, la richiesta, sottintendeva un tentativo di omologazione per vantare potere e grandezza ergendosi al di sopra delle nazioni vicine. Traduceva, dunque, la ricerca di garanzie che appartiene all’umanità di ogni tempo trasformando anche la sfera religiosa in un tentativo di gestione della propria sicurezza: sentirsi a posto perché sottomessi a leggi meritocratiche.
In una simile prospettiva anche la vendetta e la ‘guerra giusta’ era ammessa, o l’inimicizia di fronte all’avversario e la definizione dei rapporti umani secondo una logica di potere. Dio, pertanto, veniva piegato, secondo le proiezioni umane, per rispondere alle attese e alle richieste fondate sulla forza dell’uomo. Un’inversione di ruolo dunque: Dio a somiglianza della creatura e non viceversa!
La promessa di Dio, piuttosto, trova compimento nell’incarnazione del Figlio il quale assume la fattezza umana per restituire all’uomo la dignità del Cielo. Non si tratta di una fuga dalla storia che presenta complessità e limiti propri della natura ma di attraversare il quotidiano con la consapevolezza di essere figli del Padre.
Impossibile tradurre questa prospettiva inedita attraverso le parole, era necessaria una condivisione totale della vita divina con la vicenda umana. Ma Dio non può tradire se stesso e perciò tale rivelazione si è espressa puntualmente nella linea dell’amore.
Il tentatore aveva già provato a distogliere Gesù da simile impresa, “Se sei il Figlio di Dio allora…”. Dimostrare la propria identità attraverso la forza o il sensazionalismo è l’insidia di ogni tempo e, oggi, la spettacolarizzazione del vissuto umano ne è solo una peculiare espressione. Torna, nel mentre della crocifissione, la sfida analoga da parte dei soldati, della folla, del ladrone, “Se sei il Figlio di Dio salva te stesso”.
Eppure Lui continua ad annunciare il desiderio del Padre di chinarsi sugli ultimi, sugli scartati della società che Lui aveva curato e accolto da amico, e di non volere assecondare le apparenze di una religiosità che aveva fatto della casa del Padre una spelonca di ladri per l’interesse di pochi.
Lui aveva servito scandalizzando tutti gli interlocutori e proprio in quell’ultima cena aveva agito come se fosse stato uno schiavo mostrando la libertà di chi si riconosce Figlio, l’amore che supera ogni pregiudizio e che non si lascia frenare dallo sguardo altrui.
Ma, ora, lo scandalo raggiunge il punto estremo, Gesù giace sulla croce come il più vile dei malfattori e da lì continua ad offrirsi al Padre. Non perde la relazione con Lui e non si chiude in un mero intimismo consolatorio ma continua ad accogliere l’umanità tutta.
Proprio un delinquente che gli sta accanto, vedendolo affrontare la morte in quel modo, ne riconosce la fattezza. Lo supplica di ricordarsi di lui quando sarebbe entrato nel Suo regno!
Il momento della morte è la sintesi di un’esistenza, lì si riconosce il senso di ogni cosa, ciò che è davvero essenziale, e proprio un “ultimo”, uno che vive ai margini della società, riesce a vedere oltre le apparenze e riconosce la vittoria dell’amore su ogni tipo di male e, anche, sul proprio peccato.