Da bambini, quando giocavamo a nascondino, avevamo la possibilità di assumere un ruolo straordinario che poteva restituire libertà a tutti i partecipanti una volta raggiunta la meta, prima dell’avversario, attraverso il grido “battipanni liberi tutti”.
Un gioco che è metafora della vita perché in base alla meta che si persegue è possibile restituire libertà piuttosto che schiavizzare quanti sperimentano gli effetti delle nostre azioni. Le conseguenze, inoltre, possono ricadere anche sui posteri in base alle cure o alle ferite che procuriamo all’ambiente che ci circonda.
Decidere di percorrere la strada liberante, per sé e per gli altri, significa anche opporsi alle proposte più vantaggiose in termini economici ed utilitaristici ma non curanti della salute e della dignità altrui. Basti pensare, ad esempio, alla schiavizzazione e al caporalato esercitato molto spesso nelle nostre campagne per la raccolta delle colture e la produzione di alimenti o, ancora, ai pesticidi usati per ampliarne i profitti.
La grammatica del bene, che si coniuga con la giustizia e la verità, abbisogna della negazione ossia della possibilità culturale di scegliere una strada piuttosto che tante altre e non perché ciò sia conveniente in termini economici ma solo perché umanamente responsabile.
Il fattore umano la cui tutela comprende sia la qualità dei prodotti che l’attenzione alla filiera etica, abbisogna della responsabilità di tutti, imprenditori e consumatori. Opporsi ad una subcultura di morte, quella fomentata da un certo capitalismo, è possibile attraverso il limite posto dai parametri che rispettano la dignità umana e il suo benessere.
Pare che i nostri giorni abbiano smarrito l’avverbio negativo capace di generare cultura ossia differenziazione e spirito critico rispetto ai processi mortiferi e distruttivi che l’era consumistica ha posto in essere. Non si tratta dell’opposizione sterile di una politica guerrafondaia ma dell’obiezione di coscienza che custodisce la nobiltà di un popolo e il valore della stessa scienza.
Noi non siamo quello che abbiamo, casomai, l’importanza di una persona non è misurabile in termini di possessi ma di visione di vita.
Il criterio di visibilità che sovente viene utilizzato genera continue esclusioni e solo apparenti inclusioni, ad esempio l’utilizzo dell’acronimo inglese NEET (Not in Education, Employment or Training) riferito ai giovanissimi non impegnati nello studio, né nel lavoro né nella formazione. Si tratta di una definizione che esprime ciò che quella fascia di popolazione non è, in termini di inserimento nel mercato finanziario, ma non riconosce quello che in realtà è.
Gli indici di successo e di felicità che vengono utilizzati rispondono a degli standard che muovono da una visione di società e di persona, centrata maggiormente sull’efficientismo e, dunque, sulla utilità piuttosto che sul valore personale. Quando gli stessi giovani sono sfruttati in catene di montaggio, come se fossero burattini da manovrare, ecco che allora divengono finalmente visibili per l’intero sistema sociale!
NEET, piuttosto, andrebbe sostituito con l’acronimo PEER (Potential, engaged, Education Employment to be recognized) e cioè potenziali studenti e lavoratori da riconoscere. L’altro è sempre una possibilità ma è responsabilità di ciascuno favorirne l’espressione attraverso un processo educativo che cominci dai più piccoli.
Il contrasto alla povertà educativa e la promozione culturale nel nostro Paese, infatti, deve passare per un capovolgimento di prospettiva che parta dalla potenzialità creativa propria di ogni essere umano.
Fino a quando si tratterà di imbrigliare la libera espressione in un pensiero standardizzato, i bambini non potranno crescere contribuendo con la loro originalità ai programmi scolastici, i giovani faranno fatica a inserirsi in un circuito lavorativo che li vorrebbe passivizzare riducendoli ad automi del mercato, le fasce di popolazione più fragili saranno trattate come uno scarto inutile ai fini del “progresso”.
Il criterio efficentista, dunque, non può orientare la maturazione umana, l’adattamento che permette lo sviluppo delle civiltà è altra cosa perché rispetta il ritmo della crescita e la custodia dell’ambiente in cui si vive. L’utilitarismo non lascia spazio alla bellezza, al respiro sinergico, alla meraviglia. Centrarsi sul compito abbrutisce l’individuo isolandolo dal prossimo perché il “da farsi” assume il primato sulle persone e non ammette il limite proprio della fragilità umana. È così che molti finiscono con l’ammalarsi gravemente perché non si sono permessi alcuna sosta mantenendo, per anni, ritmi lavorativi sempre più incalzanti.
Quanta alienazione produce un sistema diretto dal mercato finanziario, un’apparenza che genera solitudine e frustrazione fino a spegnere del tutto l’autenticità dell’individuo.
L’esistenza, piuttosto, abbisogna di gratuità e l’esperienza del dono restituisce visibilità a ciascuno perché non siamo il frutto dell’interesse di turno.
Condividere gratuitamente quello che siamo genera bene, gratitudine reciproca, amore disinteressato. Secondo questa prospettiva il tempo torna ad essere percepito non più come rincorsa per accumulare ma come viaggio da attraversare rivolti verso la meta, quella capace di restituire veramente la libertà a tutti.