In occasione dell’evento di Circo sociale che in questi giorni si svolge nella Fattoria comunitaria di Danisinni, al termine del percorso il bambini del territorio hanno realizzato delle installazioni ispirandosi a “Le città invisibili” di Italo Calvino, immaginando quella che Sofia ha intitolato “Una città normale”.
Tornare allo sguardo dei bambini è di vitale importanza per il nostro tempo che pare coltivare diffidenza e pregiudizi tali da creare distanze invalicabili.
Generare opportunità di incontro autentico e favorire processi di interscambio è necessario per la salute delle nostre città rese, altrimenti, luoghi anonimi e aggomitolati su se stessi come direbbe Calvino attraverso la descrizione della città di Zobeide dove il desiderio di bellezza e di felicità finisce con l’essere disatteso dalle mura, cioè le leggi, che ne regolano la pacifica convivenza.
La questione è di profonda attualità e, considerato che “la città normale” è il desiderio dei piccoli che faticano a stare nel complesso mondo che abbiamo creato noi adulti, porta a riflettere se è possibile perseguire la felicità privi di un orizzonte di senso. Abbiamo svuotato l’incontro umano di passione e valori, rendendolo occasione per la convenienza di turno dove la persona è mercificata piuttosto che riconosciuta.
Per una riflessione in merito ci viene incontro la pagina del Vangelo che ci viene offerta questa domenica (Mt 22, 1 – 14) la quale completa una trilogia di parabole che descrivono, dapprima, l’invito di Dio dapprima a lavorare nella sua vigna e, ora, a partecipare al banchetto nuziale da Lui preparato.
L’invito, quale tema conduttore delle tre parabole, esprime la centralità della relazione e il desiderio di Dio che vuole condividere la propria vita e, dunque, il suo amore. Parlare dell’amore non è semplice perché siamo contaminati da una logica di appropriazione egoistica e da un interesse legato alla convenienza individualistica. Eppure il Vangelo non ci offre l’immagine di un amore ideale e puro ma la resistenza di chi è capace di mantenere il legame e il dono malgrado il rifiuto.
L’invito è declinato come chiamata al lavoro, poi come consegna dei frutti e quindi come partecipazione alla festa. Un’unica risposta che attraversa tre momenti essenziali della vita di ciascuno: l’impegno quotidiano per la causa di bene, così è da intendersi il lavoro; la restituzione dei frutti quale consegna per il bene comune; la partecipazione alla festa nuziale da intendersi come riconoscimento pieno della comunione reciproca.
L’elemento comune in ogni parabola è il rifiuto, dapprima perché non si ha voglia, poi per appropriarsi dei frutti e, in ultimo, perché presi dai propri affari ed interessi esclusivi. Un micromondo autoreferenziale che diventa missione di vita ed illusione di benessere privatistico.
Torna la provocazione de “Le città invisibili”: tutto questo è capace di soddisfare il desiderio profondo di felicità che ciascuno porta nel cuore?
Il Vangelo ci offre l’immagine dell’incrocio lungo la strada, dove tutti vengono chiamati e nessuno escluso. È il crocevia esistenziale in cui ogni giorno a ciascuno è dato di riconoscere il volto altrui o di coprirlo all’ombra dell’ego personale. Un mondo distratto che non incontra l’altro non accetterà neppure l’invito gratuito alla festa, piuttosto resisterà adducendo scuse per disinteresse e svalutazione della proposta altrui. È l’individuo saccente che pensa di non dovere ricevere nulla dall’altro e che crede di potersi salvare da solo ossia di essere artefice della propria esistenza.
La possibilità d’ingresso, però, è data a “buoni e cattivi” e questo denota la gratuità del dono perché l’invito non dipende dai meriti personali. Il desiderio di Dio è condividere la propria esistenza perché questo atteggiamento traduce l’amare perché chi ama vuole il bene altrui e non tiene conto del male ricevuto. Ma c’è una condizione singolare che determina l’esclusione dalla festa nuziale ed è la mancanza dell’abito.
Nella Scrittura la tematica della veste compare già nei primi capitoli quando il dubbio sulla bontà di Dio e la successiva pretesa di diventare come lui senza accogliere il suo nutrimento diventa esperienza di vergogna per la propria nudità e di conseguente nascondimento. L’abito, dunque, torna quale immagine per apparire importanti e giusti come scribi e farisei che per essere ammirati allargano i loro filattèri e allungano le frange, o come motivo di invidia come per i fratelli di Giuseppe o il fratello maggiore che non vuole fare festa per il fratello che è stato perdonato dal padre.
Nel cristianesimo la vita filiale è segnata dalla veste battesimale che indica la dignità piena dei figli di Dio e a cui non può essere aggiunto alcun valore perché quella veste non ha prezzo.
Nella parabola odierna uno degli invitati non ha accolto la veste che veniva consegnata all’ingresso della festa nuziale. Viene chiamato “amico” così come altre volte dirà Gesù per chi rifiuta la rivelazione della misericordia del Padre, per chi non accetta che l’operaio dell’ultima ora venga pagato in pienezza e per Giuda che lo tradisce perché ha disatteso le sue aspettative.
Il dono della vita vera e della rivelazione di ciò che ancora è invisibile ai nostri occhi è aperto a tutti ma per scoprirlo ed accoglierlo è necessario aprirsi all’amore che da soli non possiamo imparare.
Forse è bene tornare ad ascoltare i bambini e il loro desiderio di una città normale…