Quando il quotidiano viene stravolto a motivo di un incidente, di una pandemia, di un fallimento per la propria fragilità, l’individuo viene interpellato dal confronto con il limite e dal percepirsi vulnerabile. Si crea, così, l’occasione per ripensare ciò che regge il proprio cammino e la meta per la quale ci si sta spendendo. Vengono messi in discussione i parametri di valutazione e si cercano testimoni credibili che possano raccontare quale esperienza generi autentico benessere e felicità duratura.
Si arriva a scoprire che sono molti i venditori di fumo che giornalmente cercano di manipolare il prossimo attraverso ricette salvifiche ed elisir di appagamento perfetto e, così, propinano il mito del successo e del potere rendendolo noto attraverso le cifre del proprio conto in banca o i possessi da esibire.
Eppure, malgrado questa sfoggiata certezza, tali promesse si risolvono in innumerevoli narrazioni tristi, compensate da continue fughe ora nello sballo o nel tradimento di turno, una fugacità che frammenta le esistenze personali e familiari.
Diversamente abbiamo bisogno di continuità e memoria e cioè di radici da cui attingere per generare futuro. Ciò è possibile solo nella linea del bene perché il male distrugge e chiude alla vita, rende sterili e non permette crescita o sviluppo altrui. Il male, ramificandosi nelle sue trame, genera storia ma non memoria e questa invece è frutto dell’amore. Nel ricordo d’amore, infatti, si può sempre attingere per trovare rinnovato nutrimento e spinta in avanti.
Pensiamo al magistrato Rosario Livatino che viene beatificato ad Agrigento questa mattina, lui ha solcato la nostra terra seguendo la traccia dell’amore ed è per questo che farne memoria oggi porta commozione e gratitudine. Lui aveva fatto voto di “camminare sempre sotto lo sguardo del Signore” e il suo amore per Dio, per la sua famiglia, per la causa della giustizia così come per i poveri, era dettato dall’affondare le sue radici nello sguardo di Dio. Da Lui si sentiva donato alla vita per sempre!
Malgrado l’opera violenta dei quattro sicari della stidda agrigentina, era il 21 settembre 1990, la memoria di Rosario Livatino resta feconda perché l’amore di chi rimane legato al Signore genera vita e non ha fine. È per questo che la domanda lanciata dal giudice prima degli spari, “Picciotti che vi ho fatto?”, continua a risuonare a distanza di tanti anni. È la stessa domanda che risuona dal Cielo e che scuote l’animo di chi ha il coraggio di ascoltare: “Popolo mio che male ti ho fatto?” (Michea 6, 3).
Se il nostro tempo manca di testimoni è perché pochi ascoltano e in tanti sono proiettati ad affermare se stessi ed usare le parole per dominare sull’altro. Se non scopriamo la gioia dell’affondare le radici in chi ci ha amati per primo e continua a guardare con tenerezza di Padre la nostra vita, saremo solo inquieti disperati, girovaghi ma senza meta.
Nel Vangelo di questa domenica (Gv 15, 9-17) ascoltiamo Gesù che pone un parametro esemplare: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore». Non si tratta di sforzarsi per riuscire ad amare ma di accogliere il dono perché è Lui a muovere ogni cosa e rendere possibile il nostro consumarci per amore.
Il Maestro chiama ad un’esperienza relazionale che ci introduce nella vita di Dio: Lui facendo spazio dentro di sé ci genera a nuova vita secondo lo Spirito e cioè alla vita divina frutto del Suo amore.
Se entriamo in questa comunione allora è possibile esprimersi nella linea dell’amore e del dono pieno, dunque, non si tratta più di preservarsi ma di consumarsi nell’amore. È così che si rimane in Lui e si vive da “amici”.
L’amicizia di Dio non è quella della fratellanza che unisce alcuni a discapito di altri come accade nelle lobby di potere, ma è l’amicizia della fraternità che rende tutti figli dell’unico Padre e riconosce di appartenere al fratello per interesse gratuito e legame scelto per amore. Nell’amicizia si è alla pari ed è così che il Padre ci tratta, ricordiamo come Gesù dice questo ai discepoli che di lì a poco lo tradiranno: continua a chiamarli amici consegnando loro una promessa che attende risposta e Lui, certo di quel legame, già si dona.
Essere chiamati amici, allora, significa riconoscere che la storia personale è risposta al Suo amore e si rimane in Lui quando si accoglie il dono.
La frenesia produttiva, diversamente, fa perdere la qualità delle relazioni e fa credere che per valere è necessario dimostrare di meritare. La figliolanza di chi rimane nel Padre genera affidamento e pacificazione malgrado le intemperie della vita. Livatino così come don Pino Puglisi sono rimasti nell’amore nonostante le minacce, non sono fuggiti dalla missione loro affidata perché la loro quotidianità era immersa nell’amore e cioè nella relazione con il Signore. Sono stati capaci di rimanere nella fatica di ogni giorno mantenendo lo sguardo rivolto al Cielo ed è questa la gioia che scaturisce dal riconoscersi desiderio di Dio.
Oggi che ricordiamo tutte le mamme quale esempio di questo amore che desidera la gioia dei figli torniamo all’immagine di Maria, donna dei nostri giorni, che ha fatto dell’amore per Gesù un quotidiano di fiducia nel Cielo. Lei ha affrontato innumerevoli fatiche ed incomprensioni fino al dramma della crocifissione del figlio, ma quella storia apparentemente fallimentare è stata custodita nel suo cuore e cioè nell’amore che la legava a Dio e, così, è rimasta feconda.
Quando rimaniamo in ascolto, senza chiuderci nelle conclusioni autoreferenziali, ecco che il Cielo continua a sorprenderci e a donarci il riconoscimento e la gratitudine di una vita che scorre verso la meta.