Da un paio di giorni abbiamo commemorato il vile attentato di via D’Amelio in cui persero la vita il magistrato Paolo Borsellino insieme agli agenti di scorta Emanuela Loi, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Agostino Catalano.
L’ennesima violenza volta a fermare l’azione del bene e la causa della giustizia per la quale servitori dello Stato si erano spesi.
La storia millenaria ci ha puntualmente mostrato che il debole esercita la violenza per affermare le proprie ragioni, perché è dei forti rimanere nel solco del limite per rispettare la vita altrui. Certo non è solo il mafioso a nutrire un delirio di onnipotenza, dittatori e leader autoritari di ogni area politica e manageriale esercitano le loro soverchierie su chi sta a loro sottomesso e questo andazzo, certo, procura molta sofferenza.
A distanza di oltre trent’anni, sebbene le ingiustizie continuino ad essere assai diffuse, torna cara e feconda la testimonianza del dottore Paolo Borsellino. Uomo che è rimasto sul pezzo quotidiano con molta discrezione, come suo consueto, pur consapevole che i suoi più cari amici e compagni di missione erano stati trucemente eliminati dalla mano mafiosa.
Di lui si ricorda la rettitudine mossa dalla sua fede, la coscienza di riconoscere, dietro ogni fascicolo, il volto di una persona per la quale la presunta innocenza era la premessa necessaria per verificare eventuali crimini e azioni delittuose.
Questa visione trasparente gli ha permesso di leggere oltre le righe comprendendo che dietro al fenomeno mafioso c’è una cultura dell’illegalità e della corruzione la quale trae forza dalla sfiducia nello Stato e, di conseguenza, i cittadini rinunciano a partecipare attivamente alla vita politica finendo con il tollerare i soprusi e le ingiustizie.
Nella sua testimonianza, oggi, risuona la Parola che la liturgia ci propone in questa calda domenica di luglio, simile a quella domenica di trentadue anni fa.
Nel Vangelo (Mc 6, 30-34) torna l’immagine della folla che vaga “come pecore senza pastore” e Gesù si muove a compassione per prendersene cura.
L’antefatto è dato dai discepoli che tornano dall’annuncio evangelico e raccontano quello che avevano fatto e insegnato per cui Gesù li chiama in disparte per ristorarsi.
In realtà l’evangelista Marco ci mostra come solo Gesù insegna mentre i discepoli sono inviati a predicare e cioè a trasmettere quanto hanno ricevuto. Loro potranno insegnare solo dopo la Pasqua e cioè quando riceveranno il dono dello Spirito Santo. All’interno della Comunità nessuno è maestro ma tutti discepoli ed è lo Spirito Santo a suscitare ogni cosa altrimenti il servizio a cui ogni cristiano è chiamato potrebbe diventare luogo di potere.
Questo frainteso non è da poco, perché uscire dalla logica d’indottrinamento, proprio e altrui, è ciò che distingue il cristianesimo da una setta o da qualsiasi lobby di potere dove viene trasmessa un’istruzione ben codificata e in possesso degli iniziati.
Quando la dottrina supera il bene da compiere non c’è possibilità di cambiamento, in quei casi la razionalità arriva a negare l’evidenzia dei fatti pur di dimostrare le proprie ragioni.
Gesù descrive il cuore del bel Pastore dove la guarigione del cieco nato compiuta in giorno di sabato e proprio per questo condannata dai capi religiosi (Gv 9). L’approccio alla Scrittura da parte loro era come ad un testo cristallizzato e non come ad una Parola viva da leggere nell’attualità del presente. Dunque applicavano schemi alla vita imbrigliando il respiro del popolo fino a cacciare via dalla sinagoga un cieco pur essendo guarito.
Gesù a quel punto si rivela come il bel pastore (Gv 10) e cioè colui che fa uscire dal recinto, il termine fa riferimento oltre che all’ovile anche al cortile del tempio, il suo gregge per portarlo al pascolo e quindi alla vita.
C’è un modo di gestire il governo alla maniera di “ladri e briganti”, termine utilizzato per Giuda e Barabba, e cioè appropriandosi dell’altro piuttosto che custodirlo, fino a pensare di potere eliminarlo per i propri vili interessi.
Ben diversa è la custodia del Pastore che conduce fuori, così come nell’esodo, per restituire libertà riscattando dalla prigionia del potente, disposto ad affrontare i lupi per amore del suo popolo.
I discepoli dovranno imparare che solo stando in relazione è possibile annunciare il Vangelo e dunque mantenendo una postura fraterna e non dall’alto in basso. Gesù, ora, dà loro un ulteriore insegnamento perché vedendo le folle in attesa ne ha compassione. Non rimane chiuso nel proprio programma ma si lascia sorprendere dall’inedito muovendosi interiormente.
La compassione non è di un momento ma è un’attitudine del cuore, una postura esistenziale che porta ad uscire da se stessi. Fino a quando saremo pieni dei nostri dettami non ci sarà possibilità di esperienza di fede e lo stesso fino quando la ricerca si trasforma in impegno autocentrato. La luce che intende trasmettere l’associazione massonica, ad esempio, è frutto di un indottrinamento che ha anche delle basi esoteriche e che non ha nulla a che fare con la fede cristiana, e le pratiche meditative volte alla consapevolezza alla fine si rivelano meri strumenti di espansione dell’ego.
La fede cristiana, diversamente, si fonda sull’incontro con Cristo e, dunque, esalta l’unicità della persona che è invitata a scoprire i propri talenti ed il dono della vita nuova. È lo Spirito Santo che “insegnerà e ricorderà ogni cosa” e non la conquista ascetica dell’individuo.
La compassione che ci viene trasmessa dal Maestro, dunque, non si fonda sul diritto-dovere e il perdono muove dalla gratitudine che si fa dono gratuito. Cum-patire, infatti, traduce “soffrire con” e cioè il non rimanere estranei al vissuto altrui lasciandolo risuonare interiormente.
Questo è possibile nella misura in cui si vive nel presente e non nella interpretazione che recupera una memoria ferita nutrendo elucubrazioni mentali ed emotive. Abbiamo bisogno di dare significato alla nostra esistenza per rimanere aperti al respiro del mondo, e questo significato ci giunge dall’esperienza di fede che custodisce la vita dalla pretesa di potere altrui. Avere un solo Signore, infatti, sottrae alle tante gabbie che vorrebbero sottomettere la libertà umana.
Tornano, ancora, in mente le parole di Borsellino: «la lotta alla mafia dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità».