L’esistenza personale è continuamente chiamata a rinascita, chi non rinasce muore ossia spegne il desiderio di vita che regge il cammino quotidiano. Rinuncia a questa esperienza chi si adagia nella confort zone delle sue sicurezze fatte di piaceri ed appagamenti dettati dai possessi e dal successo, dalla illusione di perfezione e di potere esercitato sugli altri.
Rinasce chi non ha nulla da perdere, ossia chi è libero interiormente, chi non rinuncia alla causa del bene per un proprio tornaconto, chi paga in prima persona sporcandosi le mani aldilà del riconoscimento altrui. Questo cammino di rigenerazione riscatta nel profondo la dignità di ciascuno e restituisce capacità di espressione e di difesa dei comuni diritti rendendo custodi della giustizia.
Oggi si parla parecchio di rigenerazione urbana a partire dalla riqualificazione dei luoghi abitati ma ciò sarà vero solo se la qualità della vita di quanti vi abitano ritroverà diritto di cittadinanza e di partecipazione attiva al pensiero e alla vita politica delle città. Diversamente la società continuerà a produrre processi mortiferi rubando la felicità alla popolazione ormai assoggettata da modelli di consumo che, solo apparentemente, garantirebbero libertà e giustizia comunitaria. Il sistema così organizzato, piuttosto, schiavizza gli individui attraverso il lavoro frenetico e la discriminazione che produce sempre maggiore scarto e marginalizzazione sociale.
La stessa denuncia arriva dal Vangelo di Marco (1, 1 – 8) che meditiamo in questa domenica. Si tratta dell’annuncio di una rinnovata giustizia e libertà promessa al popolo malgrado l’idolatria che l’ha riportato alla schiavitù.
Un nuovo principio (una creazione nuova) dato dall’uomo Gesù il quale, attraverso la sua storia, rivela il perdono di Dio. Non una dottrina da applicare per ottenere il perdono ma il cammino di un uomo che pagando in prima persona mostra cosa significhi fidarsi del Padre senza indietreggiare di fronte alle minacce.
Per prepararsi all’incontro con lui è necessario uscire, un esodo che, questa volta, va da Gerusalemme al deserto. Il popolo d’Israele vive nella terra promessa da schiavo, ha perduto la dignità scaturita dall’amicizia con Dio perché ha iniziato a coltivare parecchie idolatrie che gli impediscono di ascoltare, dunque l’unica strada per tornare in sé è il deserto.
La tradizione biblica trova nel deserto il luogo di transito in cui è essenziale mantenere la direzione verso la meta. Un viaggio necessario, allora, ma accompagnato dal silenzio che permette di rimanere aperti alla visita e al contempo concentrati su ciò che conta.
Lo sguardo, infatti, secondo la nostra cultura potrebbe distrarre su attrattive consumistiche o legare a pregiudizi difensivi, invece l’ascolto che scaturisce dal silenzio dispone ad accogliere l’inedito e ad abbandonare la postura da predatori.
Per entrare nel deserto bisogna abbandonare la postura del “giusto” che Gesù puntualmente denuncerà. Perdere le certezze di prima è il passo necessario per l’immersione annunciata dal Battista e cioè ammettere il proprio peccato e desiderare venirne fuori. Giovanni invita a questa possibilità di riscatto e rinascita ma quello che mette in atto è solo un percorso di preparazione perché l’incontro che deve avvenire, per una definitiva liberazione, è con Gesù il quale immergerà pienamente nella vita divina lo segue.
Guardare all’uomo Gesù diventa, dunque, scoprire come umanamente ci si può aprire al Padre che è nei cieli, seguirlo nella storia permette di orientarsi nella via della giustizia. Ascoltare la sua parola è la via tracciata per lasciarsi rigenerare secondo l’orizzonte del dono, della gratuità, dell’amore.
Senza questa nuova postura esistenziale non potrà esserci pace sulla terra e i popoli continueranno a urlare parole di morte per vantare la propria giustizia.