Gli opposti non possono essere messi insieme passando dall’uno all’altro pretendendo di conciliare pace e guerra, gratuità e avidità, amicizia e inimicizia, accoglienza ed emarginazione, bene e male, amore e odio. Impossibile per l’essere umano che, di conseguenza, vivrebbe in modo scisso il rapporto con la vita strutturando una personalità doppia e, dunque, mascherata.
Anche coloro che con sottili ragionamenti cercano di dimostrare che l’essere umano è capace di vivere una polarità escludendo totalmente l’altra, di fatto, non tengono conto che questo è possibile a prezzo di una profonda rigidità che porterebbe alla patologia relazionale dove l’uno si sentirebbe giusto di fronte all’altro arrivando, addirittura, a sentenziare i propri giudizi colpevolizzanti e distruttivi. Nel Vangelo l’ipocrisia dei farisei traduce questa postura rigorosa dell’uomo giusto di fronte a Dio e al prossimo, uno che quando prega parla dei propri meriti presentandosi superiore alle fragilità altrui.
Questa è anche la sfida irrisolta del nostro tempo che cerca di controllare tutto attraverso gli algoritmi per punire chi sbaglia e mantenere il potere di chi controlla gli errori altrui. Il perfezionismo ideologico, la storia ci insegna, porta solo a profonde brutture capaci di atrocità in nome della verità, della giustizia o, addirittura, della fede.
L’esperienza di tutti i giorni, piuttosto, ci mostra che gli opposti si includono ossia sono parte della personalità che, per crescere, ha bisogno di integrazione, ammettendo i propri ed altrui limiti fino a muoversi verso la cura delle cose. Questa permette di riparare il danno, ricucire le ferite, riconoscere il limite per avere parametri lungo il cammino che, altrimenti, diventerebbe un vorticoso girare attorno a se stessi.
L’incontro con l’altro è l’occasione per tale integrazione, l’azione del prendersi cura permette di ripartire non da sé ma dall’altro sollecitando l’interesse e il movimento fuori di sé. È per questo che il comandamento evangelico “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lc 10, 27), già presente nell’Antico Testamento, viene assunto da Gesù come un comandamento nuovo e cioè rivolto al prossimo perché “come me”. Non significa, dunque, amare se stessi per essere pronti ad amare il prossimo ma ripartire dall’altro per imparare, di conseguenza, ad amare se stessi.
Un certo psicologismo vorrebbe prima “formare” la personalità matura e pronta per poi andare verso l’altro, ma questo è un concetto di salute psichica davvero rischioso perché basato su criteri autoreferenziali che limiterebbero il dono alla componente narcisistica di idealizzazione di sé. Diversamente, a ciascuno è dato di incamminarsi nel percorso della vita mantenendosi attivo ed in ascolto del viandante pur sperimentando la propria limitatezza e fragilità, e questo atteggiamento è la premessa necessaria del prendersi cura.
Siamo abituati, invece, ad un linguaggio esclusivo che vede il forestiero estraneo al sentire personale così come la guerra di altri popoli una questione che non riguarda il proprio quieto vivere. Il paradigma evangelico rivela, diversamente, che non esisterà prossimo fino a quando non si diventa prossimi di un altro che vive fuori dal proprio interesse di vita!
Il passaggio culturale abbisogna di uscire da una prospettiva conservativa che mantiene un infantilismo sociale dove la regola è il preservare se stessi e il difendersi dai nemici dattorno, per cui alla prima crisi annunciata dai media si corre a svaligiare i supermercati al fine di approvvigionare le dispense. Questo atteggiamento, anche nel caso di un’apertura filantropica, porta ad un’appropriazione dell’altro a cui si fa del bene come spesso accade nella moda radical chic che rivendica la foto con le famiglie a cui si è donata la spesa!
Maturare uno sguardo volto a percepire le conseguenze dei propri consumi, uscire dalla ricerca di soddisfazione legata all’appagamento di falsi bisogni, riconoscere che è possibile curarsi solo se ci si prende cura della realtà che ci circonda è il grande cambiamento atteso. L’indicazione del Maestro “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi” (Gv 15,12), esprime la misura differente e cioè il consumarsi per l’altro sino alla fine.
Il Vangelo di questa domenica (Mt 22, 34 – 40) evidenzia un’ulteriore risposta di Gesù: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Non una teoria da applicare ma un’esperienza d’amore che, ora, viene coniugata con l’amore verso il prossimo indicando che la relazione – con Dio e il fratello – è identica e l’una non può essere separata dall’altra.
L’amore ricevuto diventa necessità di dono, tutto inizia con l’amare perché si tratta di una posizione esistenziale che integra tutta la personalità a prescindere dai limiti, dalle ferite o dagli insuccessi. Il cuore, infatti, indica l’individuo nella sua interezza e senza nascondimenti ed è questo il senso della circoncisione del cuore neotestamentaria che, a differenza dalla circoncisione della carne, vuole intendere la totale appartenenza al Signore. Lo stesso esprime la totalità dell’anima che rappresenta la vita, rappresentata dal sangue, con tutto quello che interessa.
Amare è l’asciarsi trasformare dall’amore, un unico respiro con Dio ed è questo il senso del comandamento da intendersi come un essere “mandati insieme”, è la Sua presenza a rendere vitale l’amore verso il fratello. Gesù, dunque, unisce i due comandamenti spiegando che sono interscambiabili, l’uno dice della veridicità dell’altro, ed è questo legame a permettere l’integrazione piena tra fede e servizio, preghiera e missione quotidiana, Eucarestia e fatica per condividere la via del bene.
È il respiro di Dio a trasformare chi lo abita e a renderci capaci della testimonianza del Cielo in ogni semplice atto quotidiano. L’amore è l’unica azione che potrà restituire bellezza al nostro mondo.