Portare un nome è solcare i luoghi che si abitano lasciando traccia e cioè il proprio contributo al bene comune. Libero Grassi veniva assassinato a Palermo trentadue anni fa, il 29 agosto 1991, per vile mano mafiosa ma la città che lui ha abitato è stata segnata dal suo nome perché ha vissuto da uomo libero mostrando l’onore di chi non si piega alla minaccia del prepotente di turno.
L’onore nel senso biblico significa il peso, il valore, di una persona. L’onore di Dio dice della Sua misericordia che non si lascia deviare dall’ira o dallo spirito di vendetta. Il peso di chi usa la violenza per farsi ragione, invece, è come ombra che passa, un soffio che si agita.
La pagina di Matteo (16, 13 – 20) che meditiamo in questa domenica pone una domanda sul nome e in un contesto specifico. Porsi delle domande è principio basilare per crescere e fare dell’esistenza un percorso di conoscenza e di meraviglia. Senza domande l’esperienza del mondo sarebbe di superficie, l’interiorità non avrebbe spazio e tutto resterebbe su un piano emozionale.
Si pensi alla grande responsabilità che ha ogni educatore nel porre domande di senso: è la differenza che intercorre tra l’interrogazione di un insegnante che mira a trasmettere contenuti per avere risultati, e così dare “meriti”, e un maestro il quale, chiedendo, favorisce l’attivazione di processi di ricerca e di passione per la vita.
Le domande abbisognano anche di spazi opportuni, luoghi di incontro. Ed è perciò che nella Comunità di Danisinni la cura del paesaggio esteriore, attraverso la bellezza e la creazione di spazi di sosta comune, è la condizione volta ad offrire un contesto per riflettere e conoscere il mondo interiore.
Questa postura, dunque, l’apprendiamo dal Vangelo che inverte la prospettiva di approccio alla fede. Le ideologie di ogni tempo, sia religiose che filosofico-politiche, scaturiscono da domande mal poste e cioè dal tentativo di fare entrare Dio, il volto umano o il valore del creato, dentro il dominio individuale per cui l’interrogativo è funzionale a soddisfare la brama di potere, di compiacimento e il bisogno di dare valore o giustificazione alle proprie scelte!
Il Vangelo, piuttosto, fa emergere le domande che Gesù pone all’umanità a cui chiede di lasciarsi questionare per conoscere il senso delle cose e il mistero dell’uomo.
Ci troviamo a Cesarea di Filippo, città romana che risale al periodo ellenistico quando portava il nome di Panea in onore di Pan. Collocata sulle alture del Golan al confine con la Siria ed il Libano, nella regione delle sorgenti del Giordano, il paesaggio naturale offriva le condizioni per i culti pagani al dio Pan, infatti, una grotta da cui scaturiva una cascata fungeva da luogo per l’offerta dei sacrifici umani alla divinità legata alla pastorizia e alla natura.
Il tetrarca Filippo figlio di Erode il Grande, nel II sec a.c. la intitolò “Cesarea di Filippo” in onore dell’imperatore Augusto e così, con il nome assunto, indicare il potere e la grandiosità del Re del tempo. In quel luogo che esprimeva, già col nome, la grandiosità dell’onnipotenza umana, Gesù volle rivelare il suo nome e quello del discepolo quale riferimento per tutta la Comunità.
Teniamo conto, inoltre, che Cesarea di Filippo fu la città più distante da Gerusalemme dove arrivò Gesù. Proprio da quell’area, dedita ai culti pagani che con le loro pratiche manifestavano una religiosità che pretendeva di piegare il divino alle proprie richieste come se l’offerta fosse il prezzo per ottenere risposta, il Maestro volle rivelare la prospettiva del cammino che restituisce onore e verità alla relazione tra il Cielo e la terra.
Fino a quando non ci si lascia interpellare dall’altro non può esserci conoscenza ma solo pregiudizi e proiezioni autocentrate ed è così che Gesù, ponendo la domanda su chi Lui fosse per i discepoli, svela che per aprirsi a Dio bisogna partire dalla relazione d’ascolto e, dunque, dal lasciarlo parlare.
In quel territorio così lontano dalla religiosità giudaica il Maestro può aprire un orizzonte nuovo così come quando la distanza dovuta all’assenza dell’altro ci permette di riscoprirne il valore ed il volto.
Pietro, ora, è chiamato a riconoscere l’interesse che Dio ha per ciascuno, una relazione interpersonale e non generica, tanto che gli cambierà il nome. Questo viene attribuito dal padre e rivela l’identità di chi lo riceve, e Pietro viene indicato come “roccia” ossia basamento su cui poggiare il passo.
L’attributo che nell’Antico Testamento veniva riferito a Dio ora diventa il nome del discepolo come ad indicare che questa relazione è di piena condivisione tra il Cielo e la terra. Chiaramente la consegna è legata al servizio di Pietro e cioè al lasciarsi attraversare, quale operatore di misericordia, per condurre al Signore.
Non si tratta più di pagare un prezzo per ottenere la benevolenza del Cielo ma di scoprire ed accogliere il Suo amore per l’umanità tutta. La fedeltà a questa relazione è propria di Dio ed è per questo che Pietro approfondirà il senso del Suo nome proprio dopo il rinnegamento perché troverà ancora una volta lo sguardo del Maestro che non si tirerà indietro e, piuttosto, continuerà ad amarlo.
Da quel contesto di lontananza, dalla fede e dal cuore di Pietro ancora immerso in una religiosità impegnata a programmare la risposta del divino, Gesù vuole ripartire come a volere trarre dai meandri più bui l’umanità di ogni tempo e di ogni luogo per riorientarla in modo rinnovato verso Gerusalemme. Lì svelerà un altro modo di riconoscere la regalità e dalla Croce aprirà la via per affidarsi al Padre.
È dalle periferie esistenziali che abbiamo bisogno di ripartire, se Dio non sarà riconosciuto lì allora la fede si trasformerà in una religiosità perbenista funzionale a mettersi la coscienza a posto rimanendo indifferenti rispetto agli emarginati di questo mondo.
Pietro, però, cadrà nell’equivoco che riconoscere l’identità dell’altro equivalga a rivendicare potere su di lui, pretende di rimproverare Gesù, subito dopo averlo riconosciuto Messia, perché Lui parla della Sua passione attraverso la quale mostrerà la Sua signoria e cioè il suo amore per l’umanità.
L’onnipotenza di Dio si rivela attraverso la Sua misericordia ed è perciò che il cristianesimo mostra un Volto scomodo perché accettare la proposta di perdono anche verso i propri nemici è faticoso e lo stesso vale per la solidarietà e la condivisione dei propri beni.
Troveremo, ancora, Pietro disposto a maneggiare la spada per affrontare una guarnigione di soldati e, così, difendere il Maestro ma non sarà disposto a custodirlo senza armi offensive.
Gesù ammonirà il discepolo perché non è possibile assumere scorciatoie per eludere la storia, significherebbe entrare nel compromesso di chi pensa solo a se stesso e, così, difendere i propri interessi ma, ciò, manterrebbe nel buio della grotta, la stessa che a Banias chiedeva il prezzo dei sacrifici umani per favorire il benessere di altri.
La storia, sembrerebbe, si ripete e, ancora, oggi la nostra terra ci rivela il volto di testimoni che quella strada l’hanno percorsa sino alla fine.