Resistere con resilienza è una scelta di campo, visione concreta di come stare nelle questioni della vita. Educare alla resilienza piuttosto che al nascondimento è la grande sfida dei nostri giorni, sembra paradossale ma assistiamo continuamente a scelte che orientano verso l’una o l’altra direzione.
Favorire il nascondimento è cosa assai diffusa, in tanti propongono una maschera performativa da indossare per essere qualcuno e, così, esercitare potere attorno a sé. Sceglie la via resiliente chi testimonia la libertà di esserci aldilà delle provocazioni e delle ostilità che riceve, e attraversa le prove rimanendo rivolto verso la meta.
La parola resilienza deriva dal latino resalio che significa “saltare” e il verbo si riferisce all’immagine del saltare sulla barca che si è ribaltata a motivo della tempesta. Non lasciarsi andare dunque, ma lottare per trovare una nuova occasione di vita e, così, fronteggiare il mare sino alla riva o, semplicemente, per continuare la traversata.
Il termine è stato adottato persino in riferimento ai materiali che di fronte ad un impatto resistono assumendo nuova forma, e così anche nel campo della psicologia dove l’effetto del trauma non è preventivabile perché frutto dell’unicità dell’individuo.
Resistere con resilienza, allora, equivale a riadattarsi senza sacrificare la propria identità e direzione di vita, come accade nelle periferie delle nostre città dove gli abitanti sono continuamente sollecitati, a motivo della fragilità socio-economica, e a reinventarsi per sopravvivere e custodire i legami più cari.
La precarietà, in simili contesti, diventa una condizione spazio temporale permanente e, dunque, abbisogna di una risposta adeguata per non spezzarsi, anche se molti vengono schiacciati perché esasperati dalla fatica e dall’oppressione dovuta alle ingiustizie prodotte dal sistema.
Quando ieri abbiamo visto arrestare il giovane Paolo con l’accusa di un reato commesso diciannove anni fa, ma che già in sede di giudizio gli inquirenti avevano dichiarato innocente perché riferito ad un’altra persona, abbiamo colto la portata di questa necessaria attitudine per non spezzarsi. E questo ancora di più quando la memoria ci ha fatto ripercorrere l’itinerario che ci aveva fatto accogliere Paolo, dopo diciassette anni di detenzione, il quale ci veniva presentato per la misura alternativa che alla fine, trascorsi i cinque anni, aveva visto nascere una cooperativa di cui lui, con un contratto regolare, era il responsabile dell’area manutentori. Un lungo percorso di rieducazione e reinserimento sociale portato a compimento con successo e che, ora, lo vede nuovamente dietro le sbarre per proporgli un nuovo itinerario rieducativo – così come è inteso il carcere – per poi mentalizzarlo alla vita buona…
Ieri sera, ancora sgomenti per l’accaduto, partecipando alla festa della Zattera, luogo di ospitalità dei laici comboniani rivolto ai profughi africani, abbiamo incontrato tanti che per quella Comunità sono passati dopo essere stati salvati dal naufragio nei barconi e che, ora, hanno ritrovato dignità e volto esprimendo la bellezza che portavano dentro. Ho pensato alla grande capacità di trasformazione che hanno avuto attraversando deserto, prigionie e torture, prima di arrivare al mare e poi approdare alla precarietà che il nostro continente riserva agli ultimi.
Abbiamo bisogno di gettare la maschera per vedere e lasciarci riconoscere con le rispettive fragilità e resilienze. Nascondere la fragilità per apparire sufficienti è il grande male che appesantisce l’animo umano, ma è il prezzo richiesto per rimanere negli standard produttivi che dicono del valore di un individuo in termini di efficientismo.
Il Vangelo ( Mt 11, 25 – 30) di questa domenica svela il gioco illusorio e propone una direzione capace di “ristoro” e cioè di sosta, convivialità, riparo e consegna. Riconoscere il proprio bisogno di aiuto così come l’incapacità di affrontare tutto da soli, apre alla relazione e al prendersi cura che è sempre fondato sulla reciprocità.
Quella di Gesù è una risposta sia ai dubbi manifestati dal Battista il quale – arrestato per avere denunciato la verità – doveva fare un ulteriore passaggio di fiducia per credere nella riuscita della sua missione; che alle città che avevano respinto l’annuncio del Messia preoccupandosi di perdere il loro equilibrio e l’interesse utilitaristico dei potenti. La Sua parola, infatti, risultava scomoda e sovversiva per quell’ordine sociale così ingiustamente stabilito.
Gesù risponde ringraziando il Padre perché ha rivelato la conoscenza ai piccoli e l’ha tenuta nascosta ai dotti e sapienti. Comprendiamo come non faccia riferimento ad una conoscenza dottrinale così come intendeva Israele ma relazionale perché fondata sull’amore compassionevole del Cielo che si china sul grido dei poveri.
Il sapiente di turno è colui che cerca di impossessarsi del sapere per nutrire il proprio ego e dominare sugli altri. È la parvenza di bontà che nutre, in modo narcisistico, il culto di sé sottraendosi allo sguardo di Dio. È la risposta che compare fin dalle prime pagine della Scrittura quando Adamo ed Eva, caduti nell’illusione di potersi nutrire senza accogliere il dono del Signore, finiscono col nascondersi per difendersi dal Suo sguardo percepito, di conseguenza, minaccioso. Si vergognano della loro nudità e perciò cercano di coprirsi per ottenere un riconoscimento benevolo.
Nella pagina del Vangelo troviamo la proposta inedita di Gesù che invita gli affaticati ed oppressi a trovare in Lui ristoro. La fatica e l’oppressione incombono su quanti rimangono a sforzarsi da soli privandosi dell’ascolto del Cielo e rimanendo su un piano mentale di calcolo in vista della propria realizzazione.
Chi si consegna è il piccolo che riconosce in Lui l’unico riparo per la propria esistenza. Ciò non rivela l’atteggiamento paternalista del Cielo ma l’espressione della fiducia e della cura che Dio ripone su quanti lo accolgono. La traversata continua e il ristoro è luogo di transito per riprendere il viaggio certi della Sua presenza.
Israele considerava la Legge il giogo per trovare la via ma aveva sperimentato l’incapacità di rispondere ai comandamenti e questo aveva esasperato il rigore per mascherare la fragilità riscontrata. Quando Gesù indica scribi e farisei come fossero sepolcri imbiancati svela questa pretesa mortifera e annuncia che la Sua missione è quella di consegnare una nuova legge fondata sul dono di sé.
Il giogo condiviso con il Signore costituisce, allora, la postura per fronteggiare le prove dell’esistenza da cui nessuno può sottrarsi. Questa esperienza di condivisione procura resilienza, capacità di resistere per andare oltre e, magari, scoprire vie inedite.