Il nostro tempo vive, molto diffuso, il dramma della depressione ossia della disillusione e del ripiegamento triste su se stessi, come se l’esistenza non portasse più alcun gusto. Simile ad una parabola i contagi da Covid-19 possono portare alla ageusia ossia la perdita del gusto o alla anosmia e cioè la perdita dell’olfatto, dunque, compromettendo le percezioni sensoriali più ancestrali che stimolano emozioni e senso di vita. Proprio gli odori o i gusti familiari, ad esempio quelli che ricordano l’infanzia, contribuiscono a dare colore alla propria esistenza e a mantenere una memoria storica, un senso di continuità dei propri giorni.
Sovente l’umano appare disorientato, smarrito per la mancanza di riferimenti e, ancora di più, per una continua frammentazione interiore frutto di incessanti proposte illusorie che promettono l’elisir della felicità o un’immagine di successo che, alla fine, si riduce allo spot di un momento.
Noi siamo molto di più di una performance occasionale, più del plauso di molti che rimangono vicini solo per interesse, più della competizione legata ai possessi e alla pretesa di affermazione sull’altro. Questi, infatti, sono mali che offuscano l’orizzonte ed etichettano il valore del quotidiano riducendolo al consenso altrui.
Piuttosto siamo opportunità e dono perché l’esistenza di ciascuno non è casuale o scontata, e ognuno porta una missione unica e irripetibile e, tutto questo, lo scopriamo quando rimaniamo aperti alla relazione con il Cielo e non quando cadiamo nella illusione di potere bastare a noi stessi o nel delirio di volere essere al centro del mondo.
La postura, per custodire tale cammino, non è scontata e abbisogna di una ferma decisione così come rivela il Vangelo (Lc 9,51-62) di questa domenica: Gesù “indurì il volto” e cioè rimase fermo nel dirigersi verso Gerusalemme e, dunque, nell’affrontare l’istituzione giudaica che nella Città santa aveva il suo presidio centrale. Lui si incammina verso Gerusalemme ma chi gli fa da specchio è il Padre, altrimenti il cammino sarebbe stato un crescere in superbia e rabbia, sempre più ferito, per arrivare a fronteggiare i Giudei così ostinati a rifiutare il Suo insegnamento.
Questa è la prima regola per fronteggiare l’itinerario di vita. Lo sguardo non deve essere rivolto al provocatore di turno ma al Padre perché altrimenti si finirebbe con l’assumere un agire reattivo a seconda delle sfide lanciate dall’aggressore. Chi rimane in ascolto del Padre si lascia orientare dalla Parola e supera le suggestioni del momento.
Gesù, ancora, rimprovera i discepoli che vorrebbero dichiarare guerra ai Samaritani che non li hanno accolti. Forse Giacomo e Giovanni avevano fatto conoscere la meta del viaggio in termini trionfalistici e non annunciando la novità del Vangelo fondata sull’amore. Al rifiuto, infatti, loro vorrebbero reagire con la vendetta ma la missione del Maestro è ben differente. E a quanti vorrebbero seguirlo con uno slancio emotivo, Lui propone di andare avanti senza volgersi indietro e cioè senza la pretesa di giustificare o spiegare le proprie scelte. Il cammino non è il frutto di consensi ma di scelte quotidiane che, spesso, mettono a rischio perché controtendenza e lontane dalla logica accomodante di chi cerca “tane” o “nidi” su cui radicare il senso della propria esistenza.
Il discepolo, dunque, rimane in cammino, la meta è altra ed è dalla luce del Cielo che attinge l’orizzonte per discernere la direzione delle scelte e, dal Cielo, ottiene nutrimento e guarigione per stare nel pezzo quotidiano, senza fughe aleatorie o rinunce per gli insuccessi.
L’umanità abbisogna di sguardi capaci di andare oltre le nebbie dell’individualismo, di cuori capaci di perdono oltre le offese immeritate, di mani capaci di regali disinteressati, di relazioni riconciliate perché grate dell’amicizia di Dio. Itineranti perché precari in questa vita e certi dello status del Cielo.