Non sempre siamo disposti allo stupore e cioè alla meraviglia che genera vita. Lasciarsi sorprendere richiede flessibilità, capacità di adattamento e apertura al nuovo ma, questo, è possibile se non ci si sente arrivati. È quello che accade quando la sorpresa dell’altro suscita ospitalità ma, sovente, ci si lascia sorprendere da ciò che conviene e quello che non rientra nei propri schemi rimane fuori cadendo nell’anonimato più grande.
Nella pagina evangelica di questa domenica (Mc 6, 1 – 6) troviamo Gesù che a Nazaret, nella sua patria, viene respinto perché in fondo è un semplice operaio e ciò non è “coerente” con l’opera che compie. Le aspettative sono altre e non si possono tradire le etichette di pregiudizio che gli pongono addosso!
Oggi incontro tanta gente che prima di iniziare una conversazione mi premette tutti i propri pregiudizi nei confronti della chiesa e poi mi parla di idee da condividere per realizzare opere belle e puntualmente mi chiedo: ma quale bellezza potrà mai esprimere il frutto di un pregiudizio?
Le mani di un falegname, dunque, fanno questione perché secondo una certa logica non è ammesso che possano compiere prodigi. La pagina evangelica si scontra con la cultura miracolistica di ogni tempo che cerca di rintracciare i segni del divino nello straordinario e non nella ordinarietà di ogni giorno. L’artigiano sta sul pezzo quotidiano, si confronta con il limite, rispetta i tempi e sa attendere, fatica e poi gioisce ad opera compiuta.
L’analfabetismo emotivo proprio della società dei consumi è ancora più ostile a tale prospettiva perché spinge alla compulsività del “tutto e subito” e alla conseguente deriva dell’ “usa e getta”. Quel che è frutto di un tempo di attesa e di un desiderio che matura, invece, procura un legame che dura nel tempo e all’uso delle cose associa la relazione, come quando gli oggetti diventano simbolo dei rapporti umani.
Quanti si trovano attorno a Gesù, piuttosto, credono di avere tutto sotto controllo pensano di conoscerlo, sanno del suo lavoro, dei suoi familiari e, pertanto, escludono che Lui possa essere il Figlio di Dio. Ammetterlo significherebbe riconoscere che nella umanità debole e nella precarietà dei giorni possa rivelarsi il segreto del Cielo!
L’individuo centrato su stesso non ammette debolezza e cerca di impegnarsi nel dimostrare a sé e agli altri di essere perfetto come un modello da ammirare. L’idea di perfezione che ha attraversato la cultura e l’arte rinascimentale fino ai nostri giorni muove da un criterio di estetica e autodeterminazione tale da snaturare la precarietà dell’essere umano. Tutto questo ci ha disumanizzati lasciandoci credere che l’occasionalità dei rapporti e l’accumulo di beni potesse, così, nutrire l’individuo malato di grandezza.
Il Vangelo, dunque, chiede lo sguardo dell’amore e questo fa riconoscere le cose perché si è coinvolti, non può essere fredda la relazione, frutto di una lettura analitica distaccata. L’incontro con Dio non permette una conoscenza individualistica, Lui si è chinato per incontrare ed entrare a fare parte della vita dell’interlocutore. La fede, allora, esprime una conoscenza comunionale dove viene colto il tutto, l’unitarietà della presenza che si ha di fronte.
Oggi dieci bambini della nostra Comunità per la prima volta riceveranno la Comunione e questo non è comprensibile se non si vede il costante dialogo tra il Figlio ed il Padre e il dono che Gesù fa di sé per accogliere tutti nella loro casa. È il dono della partecipazione alla vita divina e il cibarsi diventa una esperienza di consegna e di accoglienza, unione e rigenerazione.
Immergersi nella vita divina richiede l’uscire da uno sguardo parziale rivolto a Dio o a se stessi e, allo stesso modo, smetterla di guardare un aspetto ferito della storia personale o del proprio corpo e continuare a lamentarsi per questa fragilità. Significa iniziare a guardarsi illuminati dalla luce dello Spirito senza il quale non esiste lettura e narrazione della propria e altrui esistenza.
Abbiamo bisogno di riconoscerci debitori e cioè consapevoli della luce che ci permette di vedere. Ciò non per vivere di obblighi colpevolizzanti ma di gratitudine, perché chi si sente amato inevitabilmente condivide il dono ricevuto e così lo alimenta, perché l’amore si nutre amando.
È così che la debolezza non fa più paura e, addirittura, diventa il luogo per sorprendersi della nuova forza ricevuta in dono.