Viviamo di relazioni, moriamo se rimaniamo soli; viviamo se ascoltiamo, moriamo se solo parliamo; viviamo donandoci, moriamo se ci preserviamo; viviamo amando e moriamo se rimaniamo nel culto di noi stessi.
Ad ogni persona è dato di scegliere se vivere nel nome di un altro o in nome proprio: nel primo caso l’esistenza racconterà la trama di relazioni e si rivelerà attraverso il bene manifestato negli altri; nel secondo troveremo narrazioni sterili, colme di saccenteria e apparenze ma vuote di significato.
La bellezza è autentica quando esprime l’amore e, quindi, non rivela chi ama ma l’amato. Quando, invece, manifesta l’affermazione del proprio ego allora si tratta di una esteriorizzazione come nel caso in cui si cerca di apparire perfetti e giusti.
La bellezza, dunque, è sempre generativa perché promuove l’altro, lo restituisce alla vita carico del proprio amore. Nella Scrittura troviamo donne sterili che diventano feconde – come Sara, Rebecca, Rachele, Elisabetta, – quando la loro fede viene visitata dalla Parola e questa permette loro di concepire. Così sarà pure di Maria la quale si consegnerà alla proposta di Dio e lo concepirà nel grembo.
Dio manifesta la sua bellezza nel Figlio e, dopo la passione e morte di Lui, anche nell’umanità la cui fragilità viene visitata e guarita dal suo amore sino alla fine. Gesù rivela la bellezza del Padre, è di Lui che parla e a Lui è consegnata la sua missione e, al contempo, manifesta pure la bellezza di ogni discepolo che accoglie e custodisce la Parola.
Quando Gesù parla del buon pastore specifica che ha un rapporto di conoscenza con le sue pecore le quali ne riconoscono la voce. Si pensi che in quel contesto più pastori raccoglievano le greggi in un unico ovile per la notte e, all’indomani, andavano a chiamarle per farle uscire e ciascun gregge riconosceva la voce del proprio pastore.
L’ascolto permette di non confondersi e di non rimanere smarriti lungo la via ed è dall’ascolto che matura la fecondità, la necessità di farsi dono per l’altro.
La bellezza di cui si parla nel Vangelo, dunque, esprime il fare posto, il faticare e il consumarsi per la vita altrui. La bellezza, allora, è manifestata nella gioia di chi riceve il dono e cioè nel volto dell’amato. Si lascia amare chi accoglie la Parola e rinuncia a garantirsi da sé.
Quando Gesù parla di un gregge che non gli appartiene perché non ne conosce la voce, si riferisce a quanti rimangono ostinati nelle proprie posizioni di esteriorità autoreferenziale. Chi lo conosce, invece, ne segue la voce e si affida perché sa che Lui non è un mercenario.
La logica mercenaria è quella che nei giorni scorsi ha visto naufragare e morire più di cento persone che il venti aprile erano partiti da Al-Khums in Libia per cercare rifugio nella “bella” Europa. Il mercenario ha come interesse il guadagno ma nell’accoglienza degli ultimi non c’è un profitto economico bensì si scopre il valore del dono, la bellezza del rendere felice l’altro. Questa è una prospettiva incomprensibile non solo oggi ma anche per gli interlocutori di Gesù i quali non ammettevano che Lui parlasse di un altro, cioè, che agisse nel nome del Padre e così ne rivelasse il volto. Anche il volto autentico dell’essere umano viene manifestato dall’amore di Gesù in quanto a ciascuno che accoglie la sua offerta è dato di riconoscersi figlio di Dio.
Chi si muove nell’amore è sempre fecondo e ciò è possibile se non si parte da se stessi: chi ascolta la Parola diventa figlio e permette a Dio di dimorare in Lui perché la Parola è vivificante e illumina dentro dando, così, una risonanza capace di discernere il bene da fare e il male da fuggire.
La prima fuga è dal proprio ego e il bel pastore rinuncia alla volontà di salvare se stesso preferendo salvare il gregge che gli è affidato. È la prospettiva che regge l’essere Chiesa, la Comunità che nasce da questa trama legata dal dono sacramentale. Infatti dal battesimo in poi a ciascuno è dato di essere immerso nel dono del Padre.
La bellezza, dunque, è sempre comunionale, non crea scarto e non ferisce la vita altrui. La si scorge nell’umile fatica del quotidiano, nel sacrificio di chi si consuma per amore altrui e, spesso, viene pure umiliato ma non ne tiene conto perché l’amore ha un valore più grande.