Oggi ricordiamo la festa di santa Lucia la cui storia ha tratti molto comuni con quella di un’altra giovane santa, Agnese, a cui è intitolata la nostra parrocchia.
Entrambe si trovarono denunciate dai pretendenti che non accettarono di essere rifiutati in quanto, loro, desiderarono consacrarsi al Signore. Tutt’e due subirono la condanna a morte e morirono martiri sotto l’imperatore Diocleziano con un colpo di spada alla gola.
Oggi vogliamo riflettere non tanto sulla pretesa umana di possedere l’altro e di non tollerarne la libertà di scelta, ma sulla fortezza propria di chi appartiene al Signore e che non si lascia turbare dalla minaccia altrui.
Lucia ed Agnese con la loro morte ci rivelano il motivo per cui sono vissute, quale luce ha illuminato la loro esistenza e quale visione hanno perseguito nel quotidiano sino alla fine. Dal modo di affrontare la morte, infatti, si evince il come si è vissuti!
Tanti si adirano entrando nei rapporti con un fare litigioso, un modo iracondo di trattare le questioni della vita ma che, di fatto, porta solo all’affermazione di se stessi, anche se a volte tale orgoglio si traveste di buone opere. I martiri, invece, non proclamano se stessi, ma la loro vita parla di un altro.
Queste due giovani sono rimaste salde nel loro cammino, la loro fede cristiana non poteva essere rinnegata e la loro appartenenza al Signore non ammetteva compromessi. Seppure di così giovane età sono delle maestre di vita che ci insegnano a stare saldi nella fede.
Non è una questione scontata, la fede sembra che ai nostri giorni venga barattata a buon mercato, secondo criteri di compromesso e di convenienza. Rischiamo di fare dell’esperienza cristiana una trama di apparenze, ed è così che la partecipazione alla Messa o la preghiera quotidiana, poi, non si traducono nel riconoscimento del povero o nell’interessamento preventivo verso coloro che possono essere nel bisogno.
Quanta solitudine in questo tempo e quanti processi esclusivi continuiamo a propinare. Esclude un sistema che genera sempre maggiore divario tra ricchi e poveri, esclude il privatizzare il bene comune fino a minimizzare i bisogni fondamentali come la cura, l’educazione, il lavoro. È così che ci siamo abituati a non parlare più di bene comune ma si propende verso un andazzo che collude con “cosa nostra”, interessi di pochi e spartizione di torta all’interno di una cerchia elitaria.
Giusto per dare qualche cifra della questione, si pensi che il capitale globale è concentrato nelle mani di sempre meno individui: nel 2016 erano 61, nel 2017 erano 46, nel 2018 si contavano 26 uomini che possedevano la ricchezza di 3,8 miliardi di persone!
L’1% del PIL mondiale potrebbe sconfiggere la povertà, ma ciò sarebbe possibile solo se si smettesse di utilizzare il PIL come indicatore di benessere e sviluppo e si iniziasse a fare riferimento, quale indice di valutazione, al Benessere equo e sostenibile. Significherebbe aprire gli orizzonti e scoprire che non si viaggia nel mare della storia da soli e che il vero potere è quello della condivisione fino al dono di sé.
Lucia e Agnese ci hanno mostrato la forza del non reagire alla provocazione più grande, la minaccia di morte, e quindi cosa per loro era più prezioso. Ricordo la scena descritta dal sicario di don Pino Puglisi, il quale dopo averlo visto armato ha sorriso e ha detto “Me l’aspettavo”.
Ma cosa si aspetta un uomo di Dio? Quale è l’attesa che regge la sua esistenza? Lucia e Agnese continuano a indicarci che la vita abbisogna di passione, cause per cui spendersi, ribellione al male, ira verso ciò che non appartiene al Signore così come recita il Salmo 96: “Odiate il male voi che amate il signore, lui che custodisce la vita dei suoi fedeli”.
Loro si sono rifiutate di sposare uomini che non amavano e di fronte alle minacce hanno mantenuto la ferma convinzione di trovare in Dio il loro custode. Eppure sono stati uccise, così pure don Pino, e qualcuno potrebbe banalmente leggere che è stato tutto inutile. È necessario ripartire dal Vangelo per imparare a comprendere la storia di ogni essere umano.
Fino a quando il criterio ermeneutico sarà autocentrato non si capirà un bel nulla. Solo quando ci si apre alla prospettiva relazionale, che fa scoprire la vita come un dono dall’Alto, allora tutto si illumina. Si coglie come il quotidiano è un immergersi nella esperienza dello Spirito che abita in ciascuno, e come il Cielo continua a chinarsi perché la comunione non ha un limite e tutti si diventa unico corpo di Cristo.
Il martire non compete ma vive la comunione. Sa di non potere sussistere separato dal Signore e crede che l’amore ricevuto è già andato oltre la morte. Sa che la storia abbisogna di questa testimonianza per tornare a vedere.