Nel mondo della permacultura la cura della terra è intimamente legata a quella delle persone. Questo
legame è possibile quando si rimane all’interno di una prospettiva di condivisione comunionale in cui il
primato è dato alle relazioni e al contributo che ciascuno può dare per la custodia dell’altro.
I rapporti umani quando perdono il carattere della custodia fraterna si trasformano in sterili scambi di
interesse, incapaci di genererare e contribuire ai processi di umanizzazione. Passare dalla logica di divisione a quella della comunione è la grande sfida del nostro tempo. I beni o vengono assolutizzati e quindi trattati con cupidigia, oppure vengono assunti come strumentali alla meta che si desidera raggiungere. Nel primo caso si assisterà a rapporti competitivi e a continue ferite relazionali mentre nel secondo troveremo la libertà propria della condivisione il cui principale effetto è la comunione.
Un passaggio basilare che fa da discrimine tra il credente in Dio e l’uomo idolatra. La società dei consumi
fa del possesso il luogo della felicità, la cultura propinata infatti è quella dell’avere per essere, dell’apparire per valere, del successo ad ogni costo per realizzarsi. A volte anche taluni percorsi psicologici vengono orientati a questo criterio di riferimento in cui la capacità di adattamento e, pertanto, di salute mentale viene equiparata alla capacità di risponderere alle performance richieste secondo questi assiomi generalizzati. E quando per spirito critico un cittadino si ribella a quella che considera una gabbia relazionale o una sterile egolatria, il rischio è quello della emarginazione o, addirittura, della diagnosi antisociale!
Forse bisogna essere “fuori tempo” per custodire la capacità di innescare processi di rigenerazione funzionali al nostro tempo. E credo sia necessario ripartire dagli ultimi per avere indici di “civiltà” adeguati a leggere l’emancipazione dei nostri giorni. Non c’è riscatto se il prodotto è l’isolamento, l’esclusione del prossimo o il riuscire a fare tutto da soli. Il “successo” di un uomo non può essere dettato dal suo emergere sugli altri ma dal suo sostenere la crescita di tutti. Punti di vista che ci riportano alla Parola che meditiamo questa domenica il cui esordio è lapidario: “vanità di vanità: tutto è vanità”. L’esistenza umana rischia di nebulizzarsi, tanto può essere svuotata di
senso e di valore.
L’attaccamento all’avere può annientare l’essenza di una persona e l’attuale modello diffuso volge proprio
verso questa direzione. È così che le dipendenze proliferano e l’individuo finisce con il consegnare la sua volontà ora ad uno smartphone, ora ad un cannabinoide o al gioco d’azzardo per “evadere”. Anche certe forme di meditazione che vorrebbero trarre dalla tradizione orientale la capacità di trovare il “quieto” vivere attraverso il distacco e la compassione si risolvono in pratiche nebulizzanti in cui la volontà è talmente indebolita da permettere al guru di turno di suggerire verità su cui reggere la propria esistenza. In quei casi si ingenera una dipendenza cieca dal maestro o, diversamente, una egolatria che fa dell’illuminazione il culto di se stessi. Ritengo che l’essenziale per ogni essere umano è trovare la relazione col Padre, rapporto filiale che riscatta da ogni logica colpevolizzante o meritocratica e che apre allo sguado gratuito dell’Amore.
Mancante di questo rapporto, l’umano cercherà in ogni modo di riscattare la propria esistenza e di procurarsi la felicità usando persone e cose a proprio piacimento. Nella pagina del Vangelo che meditiamo questa domenica (Lc 12, 13-21) scorgiamo la singolare figura di un tale che interrompe il viaggio di Gesù verso Gerusalemme dandogli un imperativo. Lui ha un’urgenza legata al rapporto con l’eredità ed il fratello. Ottenere quel patrimonio è la meta che lo muove verso il Maestro. Non è un discepolo che, pertanto, si mette alla sequela di Gesù e ne accoglie la Parola, piuttosto è già troppo pieno del suo dialogo interiore, legittimato dalla giustizia che rivendica. Andando verso Gerusalemme Gesù sta rivelando il volto dell’Amore, Lui si donerà senza misura consegnandosi con fiducia al Padre e con fare misericordioso verso chi lo sta crocifiggendo. È capovolto l’ordine delle cose, la misericordia diventerà il criterio del giudizio e l’umile accoglienza il presupposto per la salvezza-felicità.
Gesù si sottrae a quel fare pretenzioso e, piuttosto, racconta una parabola. È quella di un uomo ricco che
non sa essere grato per la propria quotidianità colma di doni e invece si preoccupa per accumulare sempre di più e, così, garantirsi la vita. Chi accumula tesori non si arricchisce presso Dio dirà Gesù, l’ammassare ed il tenere per sé priva della relazione con l’altro e dispone all’invidia e alla competizione: è la fine della relazione fraterna. L’arricchirsi presso Dio è l’esperienza di chi dona perchè grato e, perciò, mantiene la relazione di amicizia con il Cielo. Nella gratitudine c’è accoglienza e consegna, così come una fonte d’acqua che più lascia scorrere e più è capace di ricevere.
Don Pino Puglisi soleva dire che “quelli che riflettono troppo prima di fare un passo, trascorreranno tutta
la loro vita su di un piede solo”. Così è colui che cerca di ammassare per reggersi da sé. Il cammino della vita invece richiede di perdere qualcosa per sporgersi più avanti, di rischiare per scoprire il nuovo, di spostare il baricentro fuori di sé per ritrovarsi attraverso la restituzione dell’Altro. Mi risuonano le quotidiane denunce di Luciano, un caro amico che nella Taranto dei nostri giorni eleva il suo grido perchè il colosso siderurgico che da decenni afferma il suo potere di garante di migliaia di posti di lavoro, impunemente ha avvelenato di diossina e ogni tipo di sostanza tossica, la terra, le acque, l’aria, la popolazione e ogni forma di vita di quelle città. Ecco quel che produce chi accumula tesori per sé ma, ancora oggi ci ricorda il Vangelo, chi consuma la propria vita per amore si sorprenderà per avere accumulato un tesoro in cielo!