La mediazione comunitaria è una questione pubblica cioè offre uno spazio per poter “ristorare”, trovare una parola forte e dolce, intensa e fresca, rassicurante e gratificante, ma anche capace di dare sollievo e lenimento. Richiama non solo la soddisfazione di un bisogno (di cibo, acqua, riposo, conforto), ma anche il ristabilirsi di un equilibrio, il ricrearsi di una stabilità nei rapporti umani.
Siamo nell’ambito della giustizia riparativa cioè basata sulla responsabilizzazione dell’autore nei confronti della persona offesa o comunque sulla reintegrazione del bene giuridico leso dal reato, con un risarcimento indiretto alla comunità.
La concezione del reato quale lesione dei diritti della persona offesa, prima (e oltre) che come offesa nei confronti dello Stato.
Non, ovviamente, per derubricare il reato ad affare privato da cui lo Stato si chiama fuori, ma per impegnarlo a riconoscere le istanze concrete delle parti di quel conflitto, rendendosi garante della loro composizione. Questo per indicare un percorso di sofferenza che però ha un punto di arrivo fondamentale: smettere di odiare.
Imparare a non odiare è fondamentale per le vittime di reati violenti, perché nutrirsi di odio per anni significa rinunciare a vivere; fondamentale per le vittime dei reati “di allarme sociale” come i furti e gli scippi, perché comunque c’è una forte spinta a trasformare l’allarme sociale in odio, che significa coltivare un clima di angoscia e insicurezza che peggiora enormemente la qualità della vita di tutti; fondamentale per i familiari delle persone detenute, che arrivano a detestare la loro condizione, quel paradosso per cui sono vittime trattate spesso allo stesso modo degli autori di reato.
La mediazione comunitaria, dunque, offre un momento di confronto sui conflitti che ledono il corpo e lo spirito, la possibilità di riscoprire insieme un modo diverso di affrontare il dolore, essere riconosciuti, ascoltati, poter percorrere un percorso di vita nuovo.