Dall’esperienza della mancata onnipotenza, quando ciascuno scopre di essere limitato, nasce la vergogna per la propria nudità e per il proprio essere vulnerabili. L’essere umano, a quel punto, cerca di nascondersi ed utilizza strategie diverse. Assumere il ruolo di vittima è un modo per trasformare la propria vulnerabilità in riconoscimento cioè opportunità per ottenere, comunque, un nutrimento ossia una sorta di risarcimento.
Tutti noi abbiamo esperienza di ragazzi che quando vengono confrontati su qualcosa, ad esempio lo strappo di un vestito nuovo che era stato loro consegnato con tante raccomandazioni, cominciano a fare le vittime come a volere dimostrare la propria innocenza e a rivendicare un torto subito. O, ancora, quando dei giovani trentenni rivendicano soldi e riconoscimento dai propri genitori rinfacciando quanto hanno vissuto da bambini e, così facendo, non si assumono la responsabilità del loro essere adulti di fronte alle questioni della vita. Vittime del passato sono, così, giustificati nel presente.
Quanti disoccupati continuano a piangersi addosso dicendo che non c’è lavoro e quando si chiede loro se hanno mai provato a partire per cercare altrove ripetono che tanto è inutile, come a volere difendere il loro stato di precari da compatire.
Chi fa intervento clinico sa bene che l’inizio della guarigione terapeutica è segnato dall’assunzione di responsabilità e cioè a partire dal momento in cui il paziente smette di accusare il mondo esterno per quel che gli accade ed inizia a considerare come lui stesso sta contribuendo a mantenere quella posizione disfunzionale.
È ancora più grave quando questo modus operandi si erge a sistema come quando la politica diventa un turbinio di parole per accusare l’avversario di turno per le malefatte compiute senza, poi, proporre alcuna visione ed azione di cambiamento.
La posizione di vittima, dunque, è in vista di un risarcimento, come a dimostrare che ci si sta sacrificando per dimostrare, prima o poi, che si aveva ragione. Tale ruolo, inoltre, procura un cantuccio sicuro, una tana in cui ripararsi anche se questa, di fatto, diventa una catena che imprigiona. Sciogliersi equivarrebbe ad affontare il prezzo della libertà, dell’autonomia e la responsabilità nel gestire le provocazioni della vita.
C’è chi preferisce rimane, così, a guardare da spettatore lo scorrere dei propri giorni. Per andare oltre è necessario uno spazio interiore, uno spazio di ascolto e risonanza, altrimenti si rischia di perdere il senso delle cose. L’isolamento vittimistico, infatti, priva del nutrimento e fa entrare in un circolo vizioso di dipendenza che, come ogni dipendenza, alimenta un vuoto sempre più profondo. L’individuo comincia a nutrirsi di rimpianti, nostalgie del passato, senso ribellione per quel che non è, e si priva del nutrimento relazionale aspirando ad una felicità individualistica da ottenere anche a discapito dell’altro. Vittima è l’uomo che si misura guardando l’altro in quanto vorrebbe essere trattato come lui. Il vittimista, pertanto, utilizza lo sguardo per giudicare l’altro e per commiserarsi con espressioni del tipo: “l’altro ha e io no!”. Ci rendiamo ben conto che per uscire da tale posizione bisogna entrare nella fatica quotidiana, quella che è perseguita in vista di un bene da raggiungere. L’attesa che genera desiderio e costruzione di un percorso e non “croci da portare”. Per il cristianesimo, infatti, il confronto con la Croce di Cristo non è volto ad espiare una colpa o per meritare, attraverso il sacrificio, il premio finale. La Croce, piuttosto, esprime il volto dell’amore ed è la fiducia e la relazione con Dio a permettere di accogliere il dono dell’amore. Non c’è un prezzo o rapporto meritorio per ottenere il perdono di Dio.
Già prima del Vangelo, l’Antico Testamento, rivelava questo modo di relazionarsi a al Signore, si pensi alla storia di Giona. Lui voleva nascondersi per quieto vivere rinunciando alla missione di vita e assecondando, man mano, il ruolo di vittima che, si scopre dalla storia, è dettato dal suo senso di giustizialismo. Al termine dei suoi giorni, lo troviamo a rivendicare i suoi diritti perchè ha una visione egualitaria della giustizia, come se l’amore di Dio fosse misurabile in base alle umane corrispondenze. L’amore di Dio, piuttosto, è sempre sproporzionato e destabilizzante e Giona dovrà scoprire ed accogliere questa illogicità.
Il profeta viene inviato a Ninive per fare ravvedere gli abitanti della città e lui fugge nella direzione opposta. Non vuole affrontare qualcosa che lo esporrebbe al pericolo, ma la fuga diventa naufragio. Sperimentata la propria povertà, ravvedutosi, andrà a Ninive e gli abitanti si convertiranno. Questo diventa il problema di Giona: non gli sta bene la logica del perdono espressa da Dio!
L’individuo che si fa vittima cerca di acquistare riconoscimento e pensa di potere conquistare e controllare, così, il mondo esterno. Chi esce dal ruolo di vittima pur riconoscendo la propria povertà si apre alla misericordia di Dio che ha un sentire che va ben oltre la fragilità umana. Questa scoperta rende resilienti e fecondi. Resilienti perchè capaci di ammortizzare incomprensioni e le ferite della vita facendone l’occasione per lasciare entrare maggiormente la luce che viene dall’alto. Fecondi perchè nell’isolamento c’è sterilità, nella relazione ritrovata si accoglie l’amore gratuito di Dio per cui ne scaturisce gratitudine e desiderio di condivisione.
L’individuo, così, guarisce dall’individualismo e riscopre il valore della relazione. Si creano legami e quindi rapporti di reciprocità. I rapporti umani, altrimenti rimarrebbero feriti, o dal ricatto manipolativo volto a colpevolizzare per tenere a sé, oppure dalla moda consumistica che prevede l’uso dell’altro a seconda della convenienza!