Il perdono scardina la vendetta, 23 settembre 2018
La vicenda umana di Gesù è il racconto dell’amore che non si rassegna alla Legge, alle regole che vorrebbero definire l’agire dell’uomo e, perciò, punirlo fino alla morte. Alla condanna definitiva subentra la capacità generatrice del Vangelo, quella che rende feconda una pianta ormai sterile. Gesù si imbatte in una grave rigidità culturale, una seconda possibilità era casomai prevista a prezzo di una lunga espiazione, ma il peso della vendetta doveva ricadere sull’uomo peccatore, cioè identificato col suo peccato.
La vendetta, dunque, vorrebbe avere la pretesa di colmare il vuoto procurato dalla ferita. Rinunciare alla violenza, all’aggressione sull’altro, abbisogna di una via nuova ossia di un’apertura che permetta di esprimere la vita, altrimenti, imprigionata dal dolore o dalle emozioni che seguono l’offesa ricevuta.
Conosciamo bene quanto spargimento di sangue ha procurato la lotta intestina tra faide avverse nella nostra terra siciliana e, ricordo ancora, quanto preziosa fosse l’opera di mediazione per la pace tra i fis albanesi che vedevano, nei villaggi, molteplici famiglie prigioniere perchè “sotto vendetta” e a rischio di gjakmarrja (“presa di sangue”), così come sanciva il kanun di Lekë Dukagjini. La vendetta, in realtà, non pacifica interiormente, porta solo inimicizia ed avvelena i propri giorni, storpia il corso della vita focalizzandolo sulla rivendicazione e l’astio nei confronti dell’altro. Ne consegue, dunque, chiusura e antagonismo, distanza ed esclusione.
La Parola che la Comunità medita in questa domenica tratta proprio di vendetta e di apertura, due termini antagonisti che, però vengono attribuiti a Dio come ad indicare che per guarire una ferita necessita entrarvi ma risignificando il senso dell’esperienza.
Approfondendo il testo di Isaia (35, 4-7), ci rendiamo subito conto che la vendetta di cui si parla è l’opera di Dio la quale estirpa ogni male e procura, per ricompensa, il bene! Il vendicatore, infatti, era colui che doveva farsi carico dell’ingiustizia subita da un parente o amico, era colui che doveva porvi rimedio attraverso la sua forza e protezione.
Quel che intende la Scrittura in riferimento alla vendetta di Dio è ben altra cosa, la forza che gli è propria è l’amore ed è così che guarisce ogni ferita rimasta irrisolta. È tale potere ad essere presentato in questa pagina, cioè quello che libera da ogni paura e programma di fuga e che restituisce all’individuo capacità relazionale. Ogni forma di vendetta, differentemente, è frutto di una visione individualistica dell’esistenza ove ciascuno pensa ad affermarsi a discapito dell’altro, forte dell’assioma mors tua vita mea. Simile postura determina solitudine e isolamento, paura e aggressività.
È un tema di grande attualità perchè il nostro tempo pare avere smarrito il senso dell’individuazione, cioè si è confuso il significato dell’essere individui con l’essere separati e contrapposti gli uni agli altri. Il termine “individuo”, in realtà, significa “intero” ossia integro e cioè capace di unità interiore, di integrazione personale in tutte le sue componenti corporee, mentali e spirituali. L’individuo, dunque, è relazionale e per fare esperienza di sé abbisogna del rapporto con gli altri, di sentirsi appartenente ad una comunità, ad un contesto che per tutti è vitale.
Questo legame mostra la fragilità insita nell’essere umano, il bisogno di ricomporsi attraverso l’altro ed è perciò che è preziosa la reciprocità, il rispetto di ogni vita mettendo da parte pregiudizi ed ogni sorta di rinvendicazione per affermarsi sull’altro. È la legge dell’amore, quando l’amore per una persona è scisso dall’amore per il resto del mondo, allora quel rapporto finirà per ammalarsi e divenire possessività e gelosia, ossia esercizio di potere sull’altra persona. Ancora, Isaia (63, 16), dirà “Tu, Signore, tu sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore”. Indica Dio quale redentore e cioè liberatore dallo stato di schiavitù, ed è proprio questa la vendetta di Dio: quella che libera l’uomo dalla condizione di assoggettamento e lo apre alla relazione filiale.
La pagina del Vangelo (Mc 7, 31-37) approfondisce il senso di questa apertura, troviamo Gesù che chiama in disparte l’uomo ferito, il sordomuto che è inabilitato ad entrare in relazione. In disparte, nella custodia, è possibile creare intimità e consegnare le proprie ferite per essere guariti. Fino a quando l’umanità cercherà le apparenze per trovare guarigione manterrà l’inquietudine di fondo, e fino a quando non saremo capaci di sosta e ritiro silenzioso non troveremo pace interiore frutto dell’incontro vero con Dio.
Quest’uomo è toccato da Gesù, con le dita tocca gli orecchi e, poi, gli pone la saliva sulla bocca. Le dita che indicano l’opera di Dio, e cioè il bene che Lui compie agendo, e la saliva che permette il fluire della Parola e, dunque, di accogliere la chiamata di Dio, di scoprire la propria identità.
Senza Parola che viene dall’alto l’essere umano sarebbe perso nei suoi meandri senza trovare piena direzione di vita. È da questa esperienza che inizia tutto, si ricomprende la propria storia e si smette di stare ripiegati sui propri eventi traumatici permanendo in una postura vittimistica.
Alla luce della Parola l’individuo scopre la relazione e trova la capacità narrativa della propria esistenza. Coglie un varco che lo porta oltre e lo apre alla scoperta e a lasciare la sua impronta, inedita, in questa vita.
È così che il passo evangelico si conclude con l’espressione aramaica “Effatà” che significa “apriti”. Fino a quando ciascuno non avrà il coraggio di accogliere questo imperativo esistenziale, non sarà capace di stupore ed immersione nell’avventura propria dell’esistenza umana.